La guerra in Ucraina uccide migliaia di persone, ma solo la morte degli sportivi viene definita eroica. Nello sport di alto livello agonistico c’è poco spazio per la morte anche se la capacità di affrontare la fine, cioè la sconfitta, è insita nello sport. Lo spazio limitato alla gara è la simulazione di un campo di battaglia, dove c’è chi vince e chi soccombe. Gli antichi greci chiamavano la lotta agòn per indicare lo sforzo dell’atleta fino all’agonia. Ai Giochi olimpici, fin dal 776 a.C., anno della prima edizione, i vincitori ricevevano solo un premio simbolico, una corona di alloro, ma la vittoria li avvicinava agli Dei, secondo l’opinione pubblica.
Quando gli sportivi affrontano la morte in guerra con grande coraggio, come sta avvenendo in Ucraina, diventano eroi. Potremmo affermare, rifacendoci all’epica omerica, che il vero eroe è l’eroe morto, è Ettore che soccombe ad Achille.

A leggere alcuni comunicati o twitter emessi da allenatori e federazioni sportive ucraine, che riguardano atleti morti in guerra, riprese interamente dai principali quotidiani italiani, i veri eroi sono quelli che hanno affrontato la morte, come Maksym Kagal morto a Mariupol, campione mondiale di arti marziali, specialità Kickboxing, che faceva parte del battaglione Azov, pieno di sportivi e di ultras ucraini neonazisti. Ecco quanto scrive a proposito il suo allenatore Oleg Skirta, anch’egli combattente di Azov: «Era un uomo onesto e perbene. Dormi bene fratello, sei morto qui sulla terra da eroe, ma noi ti vendicheremo». Dalla morte simbolica che si consuma sul tatami o su un qualsiasi campo sportivo si passa alla morte reale sul campo di battaglia che va vendicata con altro sangue.

Comprendiamo il dolore dell’allenatore Oleg Skirta per aver perso un suo valido allievo salito sul podio più alto, ma quale valenza potrà mai avere quel « ti vendicheremo»? Significa ammazzare più soldati russi? Oppure una volta catturati li si dovrà torturare anche se non ci sarà bisogno? Sparare sulla popolazione russofona schierata con Putin?

Eroe è anche Yevhen Malyshev, nazionale ucraino juniores di Biathlon, che ha partecipato alle olimpiadi invernali di Pechino 2022. Il giorno in cui la federazione sportiva di appartenenza ha ufficializzato la sua morte, i compagni di squadra della Nazionale ucraina lo hanno ricordato sui social in questo modo: «Gli eroi non muoiono mai». Malyshev era nel pieno della sua vita sportiva e la sua morte, a poche settimane dalle olimpiadi di Pechino, ha fissato nella memoria collettiva la sua giovane vita dedicata allo sport e l’ ha sottratta all’oblio: eroe per l’eternità, così vogliono i suoi compagni.

Non sono eroi, ma artisti senza gloria altri personaggi pubblici ucraini morti in queste settimane di guerra.

Il 7 marzo, all’età di 33 anni, è caduto in battaglia per la difesa di Irpin, alle porte di Kiev, il famoso attore e presentatore televisivo Pasha Lee. Il regista Mantas Kyedaravicius è morto per strada il 3 aprile, impegnato a documentare le atrocità della guerra. Egli non può essere considerato un eroe, ma semplicemente un artista, forse anche imprudente se girava con la telecamera, anziché stare al sicuro in un rifugio sotterraneo insieme agli altri.

E che dire di quei musicisti, che hanno suonato musica classica nella metropolitana di Kiev, per alleviare almeno in parte la tensione dei tanti che erano lì da giorni senza mai vedere la luce del sole? Non ricordano forse i concerti tenuti dal pianista e compositore Dmitrij Shostakovich per alleviare le sofferenze della popolazione russa durante l’invasione nazista della Seconda Guerra mondiale? Olga Smirnova, ballerina del Bolshoi che ha lasciato la Russia in polemica con la guerra in Ucraina scatenata da Putin e che ora vive ad Amsterdam, accettando di far parte del corpo di ballo olandese ha rinunciato definitivamente a una carriera di sicuro successo. Ella non è forse da considerarsi un’eroina avendo sfidato apertamente il regime di Putin con un gesto di coraggio?

La retorica che attribuisce lo status di «Eroi» solo ai campioni dello sport, si riscontra anche nelle lapidi di atleti che perirono nella lotta partigiana contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra mondiale.

Bruno Neri, calciatore della Fiorentina e del Torino con alcune presenze nella Nazionale, che sotto la guida di Vittorio Pozzo vinse il titolo olimpico a Berlino nel 1936, durante la Resistenza aderì al gruppo di Giustizia e Libertà. Neri morì il 10 luglio del ‘44 nei pressi di Marradi in uno scontro a fuoco con una pattuglia di nazifascisti, mentre si recava con altri partigiani a ritirare una cassa contenente una ricetrasmittente lanciata da un aereo.

A Neri è stata dedicata una lapide recante la seguente scritta: «Dopo aver primeggiato come atleta nelle sportive competizioni rivelò nell’azione clandestina prima nella guerra guerreggiata poi magnifiche virtù di combattente e di guida esempio e monito alle generazioni future». La lapide è stata voluta dalle Associazioni partigiane di Faenza, comune di nascita di Bruno Neri.

Non siamo di fronte a una dichiarazione esplicita di eroismo, ma all’elogio per aver «primeggiato nelle sportive competizioni». Certamente «le magnifiche virtù di combattente» sono presupposti fondamentali perché Bruno Neri sia «guida esempio e monito» per le future generazioni. «All’eroica memoria» i partigiani del viterbese dedicarono una lapide a Manlio Gelsomini, campione nazionale di atletica nella velocità e partigiano, trucidato alle Fosse Ardeatine dai nazisti.

A destra come a sinistra, ieri nel ricordo degli atleti partigiani oggi dei campioni ucraini morti in guerra, lo sport non sfugge alla retorica della celebrazione eroica, ma riserva lo status di «Eroi» solo agli uomini. E le donne? Se sono campioni e maschi è meglio. A loro eterna gloria.