Un plebiscito per un uomo solo al comando. La natura del voto che domenica ha lanciato Matteo Renzi alla guida del Pd somiglia a un’incoronazione più che a un’elezione.

La netta impressione è che la linea politica e i programmi che i candidati hanno espresso in questa campagna elettorale abbiano giocato un ruolo del tutto secondario. Certo, il sindaco di Firenze ha sparato con più forza di Cuperlo contro il governo – ogni giorno in pratica – ma se questa fosse stata la carta vincente allora Civati, il più deciso contro l’alleanza di palazzo Chigi, avrebbe dovuto prendere più voti.

In realtà i contenuti non sono stati determinanti nel decretare il trionfo del vincitore assoluto delle primarie. Domenica nei gazebo è accaduto un fenomeno diverso. Diverso dalle modalità delle primarie precedenti – quelle con Prodi, Veltroni, Bersani – dove in sostanza si doveva solo confermare una scelta di leader consolidati, collaudati e fortemente radicati nella storia fondante del Partito democratico.

Questa volta la spinta è venuta dalla paura di perdere. In particolare quello che faticosamente il Pd aveva portato a casa con il voto di febbraio. Il consenso al governo di cambiamento di Bersani si era rapidamente e rovinosamente trasformato nel suo contrario. Anziché un centrosinistra, una penosa alleanza proprio con il peggiore di tutti, Berlusconi.

E, di conseguenza, una lacerante faida interna, le minacce di scissioni, il fuoco amico nella battaglia – umiliante e penosa – per il Quirinale. Ha prevalso dunque il panico di uno sfaldamento definitivo, anche grazie alla spina nel fianco rappresentata dal Movimento 5 Stelle (non a caso il più concorrenziale nei confronti di Grillo è stato proprio Renzi).

Così l’uomo che nemmeno un anno fa aveva perso la sfida con Bersani, ora viene sommerso da una valanga di consensi.

Le stesse regioni rosse, dove fortissimo è il vecchio apparato e strettissima la connessione tra il ceto politico-amministrativo e la società, gli hanno regalato la più alta percentuale di consensi.
Un plebiscito che con il 70 per cento a Renzi ratifica la scelta di un presidenzialismo di fatto (il sindaco d’Italia) e conferma l’assoluta rilevanza della comunicazione e del marketing politico (le kermesse della fiorentina Stazione Leopolda). Con la televisione che, ancora una volta, ha fatto la differenza.
E tuttavia un risultato positivo questo voto lo ha prodotto: ratifica la fine di una nomenclatura, soprattutto di matrice comunista. Del resto negli ultimi anni la parola sinistra era scomparsa perfino dal nome (da Democratici di sinistra a partito democratico). Con Renzi l’ultimo simulacro cade e quell’equivoco finisce.

In ogni caso la sorte del governo delle ristrette intese è nelle sue mani. La frase di Letta, «Lavoreremo bene insieme», sembra più un atto dovuto che una reale promessa.
Il presidente del consiglio adesso dorme sonni meno tranquilli: Renzi non è solo un concorrente per il futuro, ma colui che ha in mano la corrente che dà energia al governo.