Come la campagna pubblicitaria piacevolmente retro (una delle pochissime affissioni, quest’anno sulla Croisette), anche Solo: A Star Wars Story, nelle sale dal 23 maggio, il secondo spinoff, dopo Rogue One, dal ciclo epico stellare ideata da George Lucas fa un effetto un po’ old fashion. Quasi analogico, nonostante l’immanenza del Cgi. Si sente la mano esperta di un veterano del racconto come Ron Howard, autore di una generazione diversa – più vicina a quella di Lucas e del co-sceneggiatore Lawrence Kasdan- da quella di Phil Lord e Christopher Miller, i registi originali del film che Howard ha rimpiazzato in corso d’opera. Filtrato dal suo sguardo, Solo ha il ritmo e la grazia di un’avventura più tradizionale, meno calcolata di Star Wars: The Force Awakens, meno concitata di The Last Jedi e meno disomogenea di Rogue One.

A partire dalla prima grande sequenza d’azione poco dopo l’inizio: una rapina dal cielo a un treno futuribile in mezzo alle montagne chiaramente derivata da una grande conoscenza del western e coreografata con sicura eleganza. Dalle montagne spazzate dalla bufera, il film chiude in un deserto sulla riva del mare, dove sta la raffineria del coassio, il prezioso metallo sulla cui conquista è ancorata la storia.

Dedicato alla gioventù di Han Solo (Alden Ehrenreich, nel ruolo storicizzato da Harrison Ford), battezzato così –scopriamo – da un ufficiale di dogana intergalattica perché non ha famiglia, il film mette in scena anche il primo incontro con Chewbacca (a cui Solo viene dato in pasto) e la prima volta che Solo pilota il Millennium Falcon, la navicella di Lando Calrissian (Donald Glover). Più vicino ai serial anni trenta che avevano ispirato il primo Star Wars (1977), che alle avanguardistiche e cupe declinazioni che Lucas ne ha fatto prima di cedere la franchise alla Disney, Solo non ha nulla di particolarmente originale o visionario ma evita i cliché del videogame. Per ora forse il titolo migliore del «nuovo corso».