Dark Night, non è un documentario, ma un piccolo film di fiction, girato in 16 giorni a Sarasota, in Florida, con attori non professionisti. Più Elephant che Bowling At Columbine, liberamente ispirato al massacro di Aurora, Colorado, in cui, il 20 luglio 2012, persero la vita dodici persone durante la proiezione di The Dark Knight Rises, il film del newyorkese Tim Sutton (Pavillion, Memphis) è un’ipnotica galleria di personaggi –un veterano, un teen ager solitario che si tinge i capelli di rosso, una ragazza ossessionata dal proprio aspetto, un padre scontento, un giovane con gli occhi azzurri inseparabile dal suo fucile. I loro ritratti, ripresi in dettagli dei corpi, dei gesti e del quotidiano così ravvicinati da sembrare astratti (la fotografia è della francese Helene Louvart), sono immersi nell’attesa di una tragedia. Attraversato da una dolce malaise che rende elettriche le immagini bellissime, il film di Sutton è un lamento di solitudini e alienazioni diverse, una polaroid di esistenze la cui emulsione ha lo stesso potenziale chimico di quella del killer di Aurora, James Holmes. Dark Night è stato presentato, il gennaio scorso, nella sezione Next del Sundance Film Festival. Abbiamo incontrato il regista/scenaggiatore Tim Sutton a New York.

Quanto è stato importante, nella scelta di fare Dark Night, che la strage di Aurora fosse avvenuta in una sala cinematografica?

È stato il mio punto di partenza. Fino a qualche tempo fa stragi come questa non succedevano tutte le settimane: Columbine era stato una bomba, che aveva lasciato un cratere. Ma c’era voluto un po’ di tempo perché un evento di quelle proporzioni si verificasse di nuovo. Oggi sembrano avvenire in modo quasi regolare. Aurora è stato distruttivo su molti livelli –prima di tutto per le vittime, per le loro famiglie e per il nostro paese; ma anche perché, da quel giorno, andare al cinema è avere la consapevolezza di cosa potrebbe succedere… Quel luogo dove vai per sognare, e per condividere il sogno di altre persone, è stato corrotto. Ed è successo durante la proiezione di un blockbuster d’azione, ipertecnologico, prodotto da una corporation, su un vigilante della notte – un film che ben inscena il grande passatempo americano della violenza. In tutto questo, un uomo armato e vestito di nero entra in sala e attacca il pubblico, dando l’esperienza reale di ciò che accade sullo schermo-quando ha gettato i lacrimogeni qualcuno applaudiva, credendo che fosse un clown pagato dallo studio. Un evento di performance art orribile, ma emblematico. In quel periodo, insegnavo un corso sull’ibridazione tra cinema e documentario. Riguardando con gli studenti Elephant, di Gus Van Sant (liberamente ispirato alla strage di Columbine, ndr) mi sono reso conto che dovevo realizzare Dark Night, un film su cosa succede «prima», su persone che vivono una giornata senza sapere che la fine è vicina. Era un modo di continuare la conversazione, attraverso il cinema.

10VISSINapertueraritrattoGIUSTObismaxresdefault

Come hai detto, dopo Aurora le stragi si sono intensificate. Ha inciso sul film?

Volevo che fosse aggiornato ma non didattico. Quando, in corso di lavorazione, c’è stata la sparatoria durante la proiezione di Trainwreck, abbiamo inserito le news in una trasmissione radio che si sente nel nostro film. Era importante per me comunicare che, quello che si vede è parte di un fenomeno allargato.

Dark Night è un film molto stilizzato. Ha la qualità distante, altra, di un sogno. Di un presentimento in cui diventa persino difficile essere sicuri di quale dei protagonisti entrerà dalla porta posteriore del cinema (per sparare sul pubblico).

Volevo un personaggio che – molto chiaramente – non avrebbe dovuto avere un’arma da fuoco o un permesso per comprarla. Ma anche mettere in scena diversi stadi d’isolamento e alienazione che possono portare a gesti del genere. Il teen ager, per esempio: forse adesso la sua frustrazione si limita a non saper comunicare i suoi sentimenti alla ragazza di cui è innamorato. Entro due anni. Chissà. Dopo tutto, gran parte di queste stragi sono compiute da giovani chiusi, che hanno un complesso rapporto con la madre. Qualche avversità in più e il veterano appena tornato dal fronte potrebbe scoppiare..La ragazza dei selfie sembra un personaggio ridicolo, fino a che non la vedi nel survivors group e capisci che dietro ai selfie si asconde qualcos’altro. Era importante che fossero dei personaggi riconoscibili dell’America suburbana di oggi. «Tipi» che vediamo ogni giorno. Siamo tutti vicini, e tutti molto più vicini a un gesto del genere di quanto siamo disposti ad ammettere. Non a caso è rarissimo che i personaggi condividano l’inquadratura uno con l’altro. I miei sono film di figure sul paesaggio – a volte emergono, e a volte ne sono inghiottite. Dark Night è un film in cui i personaggi entrano ed escono da una successione di edifici a forma di scatola e parcheggi, un paesaggio in cui della bellezza naturale non è rimasto quasi nulla. Oltre al fatto che c’erano delle agevolazioni fiscali, è stata questa la ragione per cui ho girato in Florida, dove, con un solo movimento di macchina puoi passare da uno squarcio bellissimo di oceano a un deserto d’asfalto.

Come sempre, hai lavorato con non attori. Hai riscritto la sceneggiatura basandoti sulle loro storie?

Ho trovato le persone che volevo per i personaggi che avevo scritto e poi ho adattato a loro quei personaggi.

Dopo la proiezione di Sundance hai definito Maica Armata, che firma le musiche, una co-autrice di Dark Night

È stata fondamentale. Nei miei primi due film ho usato le musiche con molta discrezione. Qui avevo bisogno di tensione e di tristezza, anche su immagini belle o spensierate. Volevo che le canzoni contribuissero raccontare la storia, usarle come Altman ha fatto con quelle di Leonard Cohen in McCabe and Mrs. Miller. I pezzi di Maica avrebbero dato il mood giusto. Per me è importante che i miei film siano belli da «guardare». Narrativamente parlando, sono molto liberi, poco strutturati – l’informazione viene data in modo subliminale, non logico. Mi interessa la qualità emotiva del racconto. Per quello considero sia Maica che Helene Louvart, il direttore della fotografia, come delle co-autrici.

Il tuo film non è solo «bello da guardare», è anche formalmente molto ricercato, ellittico, una cosa rara nel cinema indipendente americano. Mi ha ricordato il lavoro di Harmony Korine

Gummo è un film per me molto importante. Hanno accusato Harmony di manipolare i personaggi, di sfruttarli. Invece è l’opposto: lui stilizzava quella realtà distillandola. È una cosa che pochi hanno il coraggio di fare. Ma perché una persona malata di mente deve per forza essere ritratta in modo «positivo» socialmente costruttivo? Harmony fa dei suoi soggetti dei personaggi leggendari, crea insieme a loro un nuovo punto di vista.. Questi sono i film che mi appassionano. Che trasmettono la bellezza di un sogno. Ed è una bellezza esiste nella realtà: puoi scegliere come guardi un albero, la strada in cui cammini. Purtroppo, mi sembra che oggi non si incoraggi e non si riconosca a sufficienza quel modo di guardare il mondo. Quando Jumper, alla fine di Dark Night, entra nel cinema, è come se salisse su un palcoscenico – basta con le domande, i problemi: è l’ora del sollievo, quasi una sensazione di gloria. Mi piace pensare che i mie lavori permettono al pubblico di sentire e guardare una cosa in modo diverso e quindi giudicarla da un altro punto di vista.