Ripubblichiamo dall’archivio storico del manifesto il ritratto di Giovanni Falcone fatto da Carlo Bonini. L’articolo è uscito il 24 maggio 1992, il giorno dopo la strage di Capaci in cui il magistrato è stato assassinato insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Lo ha ucciso la mano invisibile di quella mafia che aveva stravolto la sua vita una prima volta a trentanove anni; nel 1979, quando, dopo 15 anni trascorsi tra la pretura di Lentini e la procura della repubblica di Trapani, era giunto alla sezione fallimentare del tribunale di Palermo, la città in cui era nato nel 1939.
Il giudice Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione, lo aveva voluto nel suo pool. È stato il suo primo amico; lo stesso sul cui cadavere, quattro anni dopo, il 29/7/83, si ritroverà a piangere e che segnerà l’inizio di un’esistenza blindata.
Un anno dopo è chiuso nel tribunale della sua città. Lo proteggono vetri blindati e un sofisticatissimo sistema elettronico di allarme. Proteggono lui e un patrimonio di conoscenze inedito, una tecnica processuale fino ad allora ignota, ma efficace.
Lavora notte e giorno alle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta, all’intelaiatura di quel maxi-processo che inizierà nel febbraio ’86 e che verrà, prematuramente ed infelicemente, celebrato come la prima sconfitta della mafia. Il suo, fin da allora, è un nome che divide magistrati, ma anche politici.
Gli amici di allora saranno, sette anni dopo, a Roma, i suoi avversari, e viceversa, in un curioso gioco delle parti. Sono i tempi delle polemiche sui «professionisti dell’antimafia» fuori e dentro i palazzi di giustizia.
Lui, Giovanni Falcone, anche allora, forte della sua ironia siciliana, di quel mezzo toscano stretto tra le labbra, attraverserà polemiche violentissime fedele
ad un ritratto di sé che ha di recente consegnato alle pagine del suo testamento intellettuale e professionale, redatto con la giornalista francese Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra: «Non sono un Robin Hood, né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello stato in terra in/idelium.
La morte altrui l’aveva vista e verbalizzata per anni. La propria, l’aveva sfiorata il 21 giugno 1989, all’Aetdaura, vicino Palermo, tra gli scogli della villa che aveva affittato, e tra i quali mani ignote avevano depositato 50 candelotti di dinamite.

Un avvertimento su cui, ancora una volta, si dividerà l’opinione pubblica e della cui autenticità, fino a ieri, molti tra i suoi ex amici erano disposti a dubitare. Per Falcone qualcosa cambia. Proprio in quell’estate dell’89, come spiegherà anni dopo, deciderà di lasciare Palermo.
L’occasione si presenterà, paradossalmente, nel febbraio ’91 e gliela offrirà un ex avversario politico, il neoministro di grazia e giustizia Claudio Martelli. Un mese dopo Falcone è a Roma in qualità di direttore generale degli Affari penali.
Entra a far parte di un selezionatissimo staff, mette in cantiere un sogno che aveva coltivato all’ufficio istruzione di Palermo quando i detrattori del pool avevano preterito a lui Antonino Meli: la direzione nazionale antimafia.
Una rivoluzione dei 26 distretti giudiziari, modellata sulla filosofia di chi si è convinto che per combattere la mafia è necessario mutuarne l’organizzazione tentacolare e coordinata.
Ci riuscirà nel marzo di quest’anno, quando la Dna diventerà legge. Il prezzo pagato è altissimo: la rottura con ampi settori della magistratura, da Magistratura democratica, ai Movimenti riuniti, a settori di Unicost.
Giovanni Falcone, per la maggioranza del Csm, non è più il giudice di un tempo. Spaventa la sua contiguità con il Palazzo e per questo ne viene decretata la bocciatura allorché gli si preferisce al vertice della sua creatura il procuratore di Palmi Agostino Cordova, a costo di finire di fronte alla Corte costituzionale.
Falcone tace. Ai suoi avversari, come sempre, non risponde. Lavora a un’inchiesta sulla mafia per il Tg2 che non riuscirà a terminare, forte già del suo libro (Cose di Cosa nostra), sulla cui copertina aveva profeticamente posto il suo epitaffio: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande, Si muore spesso perché non si dispone delle necessario alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello stato che lo stato non è riuscito a proteggere».