Nell’aprile 2020, Intesa Sanpaolo ha annunciato che non avrebbe più finanziato nuovi progetti relativi al settore del carbone. Un impegno che ha avuto la sua giusta eco, ma non aveva impedito alla più grande banca italiana di finanziare, solo pochi mesi prima, uno dei progetti più devastanti in fase di costruzione alle porte dell’Unione europea: la centrale di Tuzla 7, in Bosnia-Erzegovina.

IL COSTO TOTALE DELL’IMPIANTO si aggira intorno ai 722 milioni di euro, 60 milioni in meno rispetto a quello previsto in precedenza: non è dato sapere quali compromessi siano stati fatti per abbassarlo, al fine di renderlo profittevole. Certa è invece la provenienza dei capitali: un consorzio di banche europee – oltre a Intesa Sanpaolo, troviamo NLB Banka e la russa Sberbank – ha finanziato la costruzione per il 15 per cento, circa 74 milioni di euro, mentre in resto è in capo alla China Exim Bank.

LA BOSNIA-ERZEGOVINA E’ ATTUALMENTE un esportatore netto di elettricità, a dimostrazione dell’importanza del settore nell’economia del Paese. All’interno di un quadro socio-politico frammentato e afflitto da alti tassi di disoccupazione, non è stato difficile trovare un’unione di intenti con il governo cinese, attore centrale nei Balcani in diversi progetti infrastrutturali che rientrano nel mega piano di investimenti globale noto come Belt and Road Initiative, la cosiddetta Nuova Via della Seta.
Per Intesa Sanpaolo, il contributo finanziario a Tuzla 7 di fine 2019 è stato un mordi e fuggi, giunto prima del suono della campana. Ciò pone seri dubbi sull’azione climatica della banca di sistema italiana, soprattutto in ottica futura, quando saranno necessari impegni ben più consistenti di quelli contenuti nella sua policy sul carbone, una delle più deboli e tardive tra le banche europee.

LA NUOVA UNITA’ DELLA CENTRALE DI TUZLA si andrebbe ad aggiungere a un impianto che incombe da più di cinquant’anni sull’area. Abdel Ðozic, professore di ingegneria ambientale presso la Facoltà di Tecnologia di Osijek, descrive l’abbandono delle comunità locali al loro destino, con gli studi indipendenti sulla salute come ultimo baluardo prima dell’oblio: «Abbiamo trovato concentrazioni molto elevate di mercurio e metilmercurio. Quando si trova metilmercurio nei capelli, significa che la persona è avvelenata». La gravità della situazione è confermata da Goran Stojak, sindaco del Comune di Bukinje: «Queste persone non hanno più desideri. Chiedono solo che si smetta di avvelenarle e di avere cure mediche».

LA CENTRALE NON E’ PERO’ L’UNICA FONTE di preoccupazione, come racconta Jozo Tunjic, assessore della frazione di Bistarac Donji: «Quando soffiano venti da est, l’inquinamento prodotto dalla centrale arriva qua, quindi anche alla città di Lukavac. E la costruzione della futura discarica dovrebbe essere a nord, perciò saremmo circondati su due o tre lati».

La discarica in questione è quella di Šicki Brod, necessaria all’operatività di Tuzla 7 per lo smaltimento di scorie e ceneri della combustione. Sorgendo in un’area ricca di falde acquifere, il rischio è che i rifiuti industriali inquinino le sorgenti da cui le persone si riforniscono di acqua potabile, come denuncia la locale organizzazione ambientalista Center for Ecology and Energy.

LA DISCARICA HA INCONTRATO LA FORTE opposizione delle comunità di Tuzla e Lukavac. Nell’aprile del 2016, 2.100 persone firmarono una petizione presentata al ministero dell’Ambiente e del Turismo, e nel 2019 la protesta ha portato all’esclusione del sito dai piani urbanistici locali, senza l’individuazione di alternative. Nel marzo del 2020, quando la Bosnia-Erzegovina è entrata in lockdown per prevenire la diffusione del Covid-19, sono iniziati i lavori preparatori per Tuzla 7. Nonostante il divieto di assembramento, furono predisposti dei blocchi stradali, per ostacolare il trasporto dei rifiuti industriali alla discarica di ceneri esistente, in procinto di esaurire la sua capacità di raccolta.

«CHIUNQUE INVESTE ANCHE SOLO UN EURO per un’impresa del genere è complice», afferma Senad Isakovic Roko, presidente dell’associazione eco-sportiva di Šicki Brod, rivolgendosi anche a Intesa Sanpaolo. Il caso di Tuzla 7 è l’esempio lampante di come finanziamenti di media entità, lontani dai riflettori, abbiano ripercussioni tangibili sulle comunità locali.

Intesa Sanpaolo non è nuova a questo tipo di attività, come dimostrano i 77 milioni di euro ad Adani (ora Bravus Mining and Resources), coinvolta nella costruzione della miniera di Carmichael, in Australia, considerata tra le più pericolose «bombe climatiche» esistenti. Le comunità locali sono impossibilitate ad accedere ad alcune aree limitrofe anche se legalmente sotto la loro custodia, e sono periodicamente vessate con intimidazioni e denunce.

SENAD NON HA DUBBI SULLA REALIZZAZIONE di Tuzla 7: «Finché ci sarà un residente vivo non lo permetteremo. Abbiamo esaurito tutte le possibilità legali per impedirlo, l’unica cosa che ci resta sono i nostri corpi, che useremo nel momento in cui ci attaccheranno. Perché questo è un attacco alla vita umana».