Un’azienda palestinese di tahina che finanzia una hotline Lgbtqi+ israeliana. La ricetta perfetta per scatenare il dibattito e il boicottaggio di un’iniziativa che i movimenti per i diritti Lgbtqi+ palestinesi leggono come forma di normalizzazione sulla pelle di chi soffre una doppia discriminazione (palestinese e omosessuale, transgender, queer) e come forma di narrazione convenzionale: il popolo palestinese appiattito sullo stereotipo di società arretrata e conservatrice.

LA STORIA È PARTITA da Nazareth, dentro la fabbrica di tahina Al-Arz, gestita da Julia Zaher dal 2003, dalla morte del marito. Un’azienda cresciuta a dismisura negli anni, fino all’esportazione in mezzo mondo e alla produzione di 20-25 tonnellate di tahina al giorno, la crema di sesamo alla base del tradizionale hummus.

Zaher ha deciso di fare una donazione al numero verde del gruppo israeliano Aguda, Association for Lgbtq Equality in Israele. Una mossa che non è piaciuta alle associazioni Lgbtqi+ palestinesi che considerano Aguda uno dei tanti strumenti di pinkwashing con cui le autorità israeliane ripuliscono la propria immagine esterna. Perché non ha mai coinvolto i palestinesi, non ha mai messo in discussione la narrativa israeliana né ha mai lavorato alla fine della discriminazione che colpisce quotidianamente i palestinesi cittadini israeliani.

PER QUESTO STORICHE associazioni Lgbtqi+ palestinesi, come Al Qaws, hanno sempre rifiutato connessioni con Aguda, così come la partecipazione al Gay Pride di Tel Aviv, considerando la lotta sociale per i diritti Lgbtqi+ parte della più ampia lotta di liberazione anti-coloniale (qualcosa di molto simile al gruppo femminista Tal’at, il cui motto è chiaro: libere donne in libera Palestina).

Da cui il boicottaggio della tahina made by Al-Arz, sponsorizzato sui social da tanti palestinesi, di ogni genere e orientamento sessuale. Non tutti sono d’accordo: Aida Tuma, parlamentare della Lista araba unita, ha lodato Zaher, «nota per il suo generoso supporto a diverse cause umanitarie».

I contrari controbattono: allora poteva finanziare uno dei tanti gruppi palestinesi che si spendono per i diritti Lgbtqi+, all’interno – non a distanza – della società palestinese stessa, ancora vittima di conservatorismo e patriarcato familiare, politico ed economico.

«Aguda ha una lunga storia di progetti arroganti e orientalisti – ha scritto Al-Qaws su Facebook – che non sono altro che il riflesso delle più vaste politiche coloniali sioniste che i gruppi femministi e queer chiamano “pinkwashing”».

UN BOICOTTAGGIO di Al-Arz è stato lanciato anche (in direzione opposta a quella Lgbtqi+ palestinese) da alcuni leader religiosi disturbati non dalla presenza di Aguda quanto da quella che definiscono «anormalità sessuale». Una visione ancora presente nella società palestinese, soprattutto nelle zone rurali e più periferiche ma che sta lentamente e con fatica cambiando grazie all’impegno dei più giovani. Lo dimostrarono a maggio i funerali di Ayman Safiah, ballerino, palestinese e gay, a cui presero parte migliaia di persone o la protesta in piazza, lo scorso agosto, dopo l’accoltellamento di un giovane trans palestinese.