Lo spirito (e il sound elettronico) di John Carpenter serpeggiano sulla Croisette –nel noir arrivato alla Quinzaine da Sundance, Cold in July, nell’horror It Follows, presentato alla Semaine de la critique, e in Lost River, il debutto alla regia di Ryan Gosling presentato ieri nella sezione Un certain regard. Nelle note di produzione del film, Gosling rende omaggio a due autori con cui ha lavorato e che – scrive – gli hanno insegnato molto, Derek Cianfrance e Nicolas Winding Refn, ma Lost River è anche una lunga citazione di 1977 Fuga da New York, il notturno capolavoro postapocalittico di Carpenter. Il set non è la Manhattan violentissima e fatiscente dei tardi anni settanta, bensì Detroit, la città della Motown e della Ford, il grande simbolo della middle class americana, attualmente in bancarotta. Gosling l’aveva scoperta e se ne era innamorato durante le riprese di Le idi di marzo, ci era tornato più volte e aveva cominciato e buttar giù una sceneggiatura non sullo sfondo di Detroit ma di Lost River, una città dal passato immaginario, (nelle parole dell’attore/regista) «un cupo racconto di fate, in cui la città fa la veci di una principessa in pericolo i personaggi sono come i frantumi di un sogno infranto che cercano di ricostruire».

Il direttore della fotografia di Gaspar Noè e di Springbreakers Benoit Debie illumina la wasteland della capitale del Michigan – i lotti abbandonati riconquistati da erbacce, le macerie di edifici industriali, i resti anneriti di case distrutte dagli incendi (come nel film di Cronenberg il fuoco è una minaccia ma anche una purificazione), la distesa desolata di quartieri in cui non abita più nessuno…. – come un paesaggio a cavallo tra realtà e fantasia. E anche il film si muove su quel doppio binario: l’istantanea della crisi economica americana (case pignorate, disoccupazione, spiazzamento..) e la leggenda di un’intera città sommersa dall’acqua. Billy (Christina Hendricks) ha due figli ed è indietro con il mutuo. La banca vuole che se ne vada via, ma lei si aggrappa ostinatamente al legno marcio della sua casa. Intorno è praticamente il deserto se si eccettua una catapecchia dove vivono Rat (Saoirse Ronan) e sua nonna (Barbar Steele, l’icona di Mario Bava). Per aiutare la madre, Bones (Iain De Caestecker) raccoglie detriti di metallo da rivendere. Ma anche quella misera occupazione diventa presto impossibile perché il racket è controllato da Bully e dalla sua gang di psicopatici.

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Ridotta con la spalle al muro, Billy decide alla fine di accettare un misterioso lavoro che le offre il manager della banca. È un tassista loquace come Ernest Borgnine in Fuga da New York che la deposita davanti all’ingresso di un locale notturno, disegnato a forma di fauci. L’impressione (lynchiana –echeggiata anche dalla colonna sonora che a tratti richiama i lamenti musical di Julee Cruise in Twin Peaks) è quella di un cambio di dimensione. Forse siamo nella misteriosa città acquatica (sommersa molti anni prima per creare un lago artificiale). Ma non è chiarissimo. È chiaro invece che Eva Mendez, vestita come Carmen Miranda, viene fatta a pezzi con delle spade di fronte a un pubblico ricco ed entusiasta. Ma poi si scopre che era tutto un trucco. Il night club è infatti una boite a tema splatter, un Gran Guignol del terzo millennio, dove ogni sera, donne bellissime inscenano elaborati rituali di (finte) morti spettacolari – un’idea questa che sarebbe molto piaciuta a Mario Bava e che fa pensare anche un po’ di Philip K. Dick. Nonostante l’impressione che il film sia stato abbastanza rimaneggiato al montaggio, rimarrà deluso chi cerca in Lost River un senso compiuto. Meglio accettare di viverlo come un sogno – bello da guardare, (équipe tecnica e cast sono di alta qualità) e, ogni tanto, persino un po’ trascinante.