Forse è l’ultima delle tante mostre che hanno celebrato i 50 anni dopo. Ma solo in ordine di tempo. Si tratta infatti di Un grande numero. Segni immagini parole del 1968 a Milano, al Base di via Borgognona 34 – tra i curatori l’istituto per la storia dell’età contemporanea ISEC, che chiuderà lunedì 22 alle 18,30 quando Uliano Lucas dialogherà a proposito del suo volume Sognatori e ribelli (Bompiani 2018). Perché Lucas? Perché le sue immagini scorrono a corredo dell’intera mostra, partendo ovviamente da qualche anno prima, come il concerto dei Beatles, il Piper (dove nel ’68 suona Hendrix), l’immigrazione per arrivare a Licia Pinelli in tribunale, a quell’insieme di pochi metri in cui molto è successo: la morte del poliziotto Annarumma, la strage della Banca dell’agricoltura, la statale assediata, occupata, sgomberata, la morte di Saltarelli che l’anno dopo la strage manifestava e veniva colpito da un lacrimogeno sparato come un proiettile.

La mostra nel suo insieme, pur essendo focalizzata su Milano, deve però aprirsi con uno sguardo sul mondo come premessa per far comprendere. Ecco allora scritte, manifesti, foto, documenti sul terribile ’68 statunitense con gli assassinii di Bob Kennedy Martin Luther King, la mattanza della convention democratica a Chicago, ma anche la nascita del Black Panther. Poi Parigi e la Francia, la Germania, Praga invasa dai carri armati del patto di Varsavia (quindi la rottura tra il partito comunista che difendeva l’intervento e i gruppi nascenti alla sua sinistra), l’Africa, L’America Latina (con il Che da poco assassinato) e soprattutto il Vietnam con la sua guerra di liberazione contro l’imperialismo americano. A Milano invece i primi fermenti erano stati La zanzara, la protesta all’Università Cattolica, i beat e Barbonia City. Si manifestava dissenso, critica e speranza, anche i provos in piazza contro i colonnelli greci, piuttosto che contro Franco in Spagna che ancora garrotava. All’inaugurazione della Scala si tiravano le uova ma perché la polizia aveva sparato a Avola. I giovani volevano prendere in mano il loro destino: i ragazzi allungavano i capelli, le ragazze accorciavano le gonne.

L’autoritarismo sino allora dominante veniva messo in discussione, non esistevano più tabu, il piacere del sesso irrompeva, l’esplosione della musica dirompeva, il potere e i benpensanti rompevano. E manganellavano. Un manifesto francese in mostra gioca sulle parole grève e crève (sciopero e crepa) seguito da generale, già perché in Francia al potere c’era proprio un generale che aveva combattuto i nazisti, ma, da conservatore nazionalista, anche gli algerini che volevano affrancarsi dal colonialismo. C’era un gran fermento, le scuole venivano occupate una dopo l’altra, anche nelle fabbriche ci si muoveva, ma ancora con educazione: una foto, presa presumibilmente davanti alla fabbrica OM, mostra una persona che parla al megafono, per farsi vedere è salito a cavalcioni tra due auto, ma poggia i piedi su dei fogli di carta per non rovinare l’auto.

Di lì a poco le cose cambieranno non poco. Polizia, bombe, servizi, eroina faranno il loro sporco lavoro. Ma non hanno potuto cancellare quella voglia di cambiamento, quelle assemblee infinite, quella ricerca di futuro diverso e migliore che la mostra sottolinea e racconta (anche con filmati d’epoca), quel tentativo che ha scosso il mondo intero provocando un terremoto politico e sociale che oggi sembra appartenere alla preistoria. Per fortuna qualcuno, compresi gli studenti dell’Università IUAV di Venezia, tra i curatori della mostra, sa ancora fare i conti: 68 meno 50 fa 18, l’età in cui, come scrive uno studente IUAV «ho imparato a viaggiare con la mente nelle epoche storiche, ma osservando con 2018 occhi. Ora si comincia a suonare». Speriamo.