L’ultima volta che Hayao Miyazaki aveva firmato la regia di un lungometraggio era il 2008 e con Ponyo sulla scogliera era uscito da un’impasse creativa, regalandoci una deliziosa storia per bambini e adulti che rivoluzionava tecnicamente, con un’animazione fatta a mano e fanciullesca, ciò che aveva fatto fin a quel momento, andando ancora una volta a toccare temi universali, come quello dell’equilibrio fra mondo naturale e umano. Eravamo però in un’era «pre terremoto e disastro Fukushima» e in un periodo in cui la crisi finanziaria del 2008 non aveva ancora fatto sentire le sue conseguenze sull’arcipelago nipponico.

Questo cambio di paradigma storico e le motivazioni legate al suo essere artista e artigiano di immagini/storie ha portato il regista giapponese a cimentarsi in una nuova sfida, alla non più tenera età di 72 anni, che se non ridefinisce la sua arte, mai univoca e anzi multiforme, indica però nuove problematiche e un nuovo percorso intrapreso dal maestro nipponico e, forse, dallo Studio Ghibli stesso. Questo nuovo percorso si chiama Kaze tachinu (S’alza il vento), uscito nelle sale giapponesi, ben 344, lo scorso 20 luglio (si vocifera che verrà presentato a Venezia 70 o al Festival di Roma) e preceduto, come sempre, da un enorme battage pubblicitario e programmi speciali televisivi a esso dedicati. Si tratta di un lungometraggio basato su un manga dello stesso Miyazaki che mescola la vita di un personaggio realmente esistito, l’ingegnere aeronautico Jiro Horikoshi, con la storia d’amore descritta in un romanzo breve del 1938 dallo scrittore giapponese Tatsuo Hori.

Jiro, fin da bambino, è appassionato al volo e soprattutto agli aerei. Nei suoi sogni, spesso ad occhi aperti, incontra il suo eroe, l’ingegnere aeronautico italiano Gianni Caproni, che gli trasmette la passione per la bellezza estetica applicata al design aereo e gli insegna a credere nelle proprie aspirazioni. Il ragazzo cresce e nel 1923, mentre si sta recando a Tokyo, incontra per un breve istante quello che diventerà il suo amore della vita, la giovane Naoko. Le circostanze però sono tragiche: mentre i due sono sul treno, un boato scuote il cielo e la terra. È il grande terremoto del Kanto che causerà circa 150mila morti, epidemie e violenze che scuoteranno e cambieranno il Giappone in modo molto profondo.

Le scene del terremoto, bellissime nella loro tragicità e accompagnate dai tonfi sonori realizzati a voce (come del resto tutti i sonori degli aerei), sono rappresentate come un sussulto e un gemito della terra, caratteristica che aveva anche il mare impetuoso in Ponyo. In una capitale piegata dalla miseria post sisma Jiro si laurea e si trasferisce da Tokyo a Nagoya dove trova lavoro come ingegnere aeronautico nella Mitsubishi e dove ha la possibilità di perseguire i suoi sogni di designer, prestando la sua creatività e il suo talento alla costruzione di un nuovo tipo di aereo. Aereo che sarà poi usato come strumento di morte nelle guerre perpetrate dal Giappone. Le difficoltà nella realizzazione di questa macchina volante portano Jiro fino in Germania – forse la parte meno riuscita del film, un po’ troppo prolissa – e a riunirsi e fidanzarsi con Naoko che però è malata di tubercolosi.

Visivamente, il lavoro fatto dallo studio Ghibli è come sempre impressionante per dettagli, leggerezza e colorazione, soprattutto nelle scene aeree, una delle fissazioni di Miyazaki da sempre affascinato dal volo e dalle macchine volanti fin dai tempi di Conan il ragazzo del futuro. La musica, anche questa volta curata da Joe Hisaishi, dona un tono malinconico e quasi nostalgico alla pellicola, una tonalità che si era già vista in La collina dei papaveri, scritto da Miyazaki, ma diretto dal figlio Goro nel 2011. La scelta che a dare la voce al protagonista sia Hideaki Anno, creatore della rivoluzionaria serie televisiva Evangelion, pare non solo giustificata, ma è uno degli elementi che contribuisce a formare il carattere del protagonista, apparentemente chiuso, per niente passionale, diventando così una delle scelte più azzeccate del film. È la sua voce che con un tono distaccato accompagna le scene più spettacolari del film, quelle che contrappongono il tempo interno del protagonista, con i suoi sogni a occhi aperti che letteralmente investono di forme e colori il mondo, di fatto ricreandolo, e il tempo storico con i cui dilemmi il protagonista sembra non venire mai a contatto.

I temi e il modo molto sottile e indiretto con cui sono sviluppati sono talmente tanti e vasti che una sola visione non è sufficiente a carpirne le sfumature. Il significato, la posizione e le responsabilità dell’artista, in questo caso un ingegnere, verso la sua epoca, ma anche il significato della bellezza, dell’atto creativo per la vita di un singolo e per la società. Ma S’alza il vento è anche una storia d’amore raccontata in modo molto delicato che si intreccia con la malattia e quindi la mortalità, e con il dovere verso la propria passione creativa.

La brutalità del Giappone imperialista e dell’era in cui la storia è ambientata, il periodo prima della Seconda Guerra Mondiale, non è mai mostrata e solo sporadicamente menzionata ed è una scelta questa, assieme al continuo mescolio della realtà con i sogni di Jiro, che contribuisce a creare quella distanza dalla realtà storica descritta che evita un’eccessiva pesantezza che avrebbe fatto diventare il film qualcosa di diverso. Il non mostrare la tragedia, le razzie susseguenti al terremoto, così come le scene di guerra degli anni a venire, ha un significato preciso nell’economia e nel significato profondo che Miyazaki e collaboratori hanno cercato di far passare attraverso questo lungometraggio. Il distacco, quasi la chiusura in una torre d’avorio da cui guardare la realtà esterna senza supponenza, ma con ottimismo e candore proseguendo per la propria strada, è forse la problematica più importante che il film solleva.

Lo stesso Miyazaki in un’intervista ha dichiarato che «è impossibile per ognuno di noi interessarsi a ogni singolo accadimento e decidere come proseguire sulla base della corrente situazione politica. Le persone che posseggono una vocazione possono esperire il mondo vero per la prima volta quando lo vedono dalla piccola finestra della loro vita, donandosi completamente al loro compito». Dette da un artista che ha sempre combattuto in prima linea e che è sempre stato impegnato, contro il nucleare nel post Fukushima, ma anche (pochi giorni fa) contro la volontà del partito di governo di cambiare la Costituzione, queste parole vanno prese nella loro ambiguità e con le dovute cautele. Il film stesso non fornisce nessuna risposta e, anzi, aumentando i dubbi nello spettatore, non risulta di facile fruizione.
Forse, per la prima volta nella carriera di Miyazaki, questo lavoro non è stato fatto con in mente il pubblico giovane. Se è vero che Nausicaa o La principessa Mononoke non sono due lavori per niente facili, è pur sempre vero che stilisticamente affascinano e tengono il pubblico più giovane sempre attento. Qui si tratta di qualcosa di diverso. Le parole di Miyazaki ci aiutano ancora: «Mi dispiace, ma questo lavoro potrebbe far sentire i bambini tagliati fuori; mi è stato detto, però, che vedere qualcosa di difficile comprensione, qualche volta può avere un significato importante».

Se Ponyo sulla scogliera era una festa e andava a toccare lo stupore infantile dentro a ciascun spettatore, S’alza il vento è un ballo fin de siècle, dove a essere invitati sono scrittori e artisti di inizio del XX secolo, come il già citato Tatsuo Hori, ma anche il Thomas Mann della Montagna Incantata, opera citata nel film. A essere abbracciati in questa danza apparentemente in modo distante, ora sfiorandosi ora no, sono il tempo interno individuale, leggero e aereo e quello macchinoso e pesante della Storia con la S maiuscola. Il film, seppur fra i più cupi di Miyazaki, è un inno alla speranza, un’ode alla vita anche quando il momento sembra tragico, un invito a volare fin quando il vento si alza, il titolo stesso viene infatti da un passaggio da Il Cimitero Marino di Paul Valéry. «S’alza il vento… Bisogna osar di vivere!». Nei tempi che viviamo, ma soprattutto in quelli a venire, per vivere davvero bisognerà osare.