La figura del presidente – e ciò che vi rimanda – è un riferimento fondante nel paesaggio dell’immaginario americano, un «personaggio» che ricorre molto più che altrove nelle sue narrazioni: dalla «nascita di una nazione» segnata dall’omicidio di Lincoln, colui che doveva unirla, fino agli istanti filmati da Zapruder, e divenuti memoria collettiva, mentre Kennedy si affloscia colpito a morte sulla macchina scoperta accanto alla moglie Jackie. E poi le campagne elettorali, gli scandali, i complotti, i thriller, tutto ciò che ruota intorno alla Casa bianca e a colui che la abita si fa materia di sogni, paure, desideri attraversando i generi cinematografici e le loro rappresentazioni dell’America – lo dimostra anche il modo in cui viene seguita l’elezione di un presidente, in forma di «spettacolo» mediatico assai diffuso a cui sembra partecipare l’intero Paese.

IL PRESIDENTE è una proiezione, del sogno della città sulla collina come del suo rovesciamento nell’incubo che è sembrato avverarsi in modo particolarmente vivido con Donald Trump. La Washington distopica di The Manchurian Candidate – corrotta, razzista, autoritaria e classista – ne è una meravigliosa rappresentazione, con una corporation malvagia che cerca di infiltrare il suo uomo alla presidenza Usa: nel film di Demme, del 2004, non è più un complotto dei comunisti come nella versione del 1962 di Frankenheimer, ma un ex soldato americano (Liev Schreiber) assoggettato al controllo mentale della stessa corporation – eletto vicepresidente e destinato nei piani della Manchurian a rimpiazzare il Commander in Chief dopo il suo (programmato) assassinio.
Filologico, attento a evitare la facile magniloquenza sul Great Emancipator – il «grande emancipatore» che ha sancito la fine della schiavitù – è il Lincoln di Spielberg (2012), in cui si ricostruisce la sua instancabile battaglia politica e umana per l’approvazione del Tredicesimo emendamento prima della fine della Guerra Civile che riporterebbe in parlamento gli stati contrari all’emancipazione. Spielberg realizza il suo personale monumento a uno dei presidenti più amati e leggendari della storia americana – ne fa la sua ode a un’idea di giustizia, a un modo di intendere e praticare la politica, alla democrazia.

Attraverso il giovane Lincoln John Ford costruisce invece un monumento (ex ante) dell’eroe americano a tutto tondo: il self made man che con le sue doti dialettiche da aspirante avvocato in Alba di Gloria (1939). Il suo Lincoln (Henry Fonda) è destinato a scrivere la «leggenda» attraverso cui guardare l’America. Entrambi, Lincoln e Kennedy – incarnano le occasioni mancate, l’innocenza perduta, la storia che prende all’improvviso un diverso detour.

«IMPORRE una narrazione è un gesto fascista» diceva più o meno del suo approccio al documentario Emile De Antonio (1919 -1989) pioniere del film politico col «metodo» della «compilation» – «Tutti i miei film sono dei collage» – secondo l’arte di Rauschenberg e Cage, senza voce narrante ma entrando fisicamente in campo, la cui opera (una decina di titoli) è fondamentale per capire dall’interno «il meccanismo americano» nelle sue molte sfaccettature – dal maccartismo (Point of Order, 1963) al Vietnam (In the Year of the Pig, 1968), alla lotta politica «clandestina» (Underground, 1976).

Probabilmente Stone per JFK (1991) – ai presidenti ha dedicato altri due film: Gli intrighi del potere- Nixon (1995) e W (2008) su George W. Bush – ha guardato con molta attenzione Rush to Judgement (1966) in cui De Antonio lavora sul libro – best seller nonostante i boicottaggi – di Mark Lane, che si offrì di difendere Lee Oswald contestando le conclusioni della commissione Warren sull’assassinio. «In un senso reale, questo film è la difesa di Oswald, quindi non siamo imparziali» disse De Antonio che finirà nel mirino di Hoover capo dell’Fbi che lo mise sotto sorveglianza – lo racconta con molto umorismo in Mr. Hoover and I (1989).

America is Hard to See – uno dei suoi capolavori (1970) in cui indaga la sconfitta del candidato democratico Eugene McCarthy, e soprattutto il fallimento di ciò che rappresentava, una sinistra liberal, di cui era il portavoce genuino messa in scacco alla Convention dal più «rassicurante» e burocratico Hubert Humphrey – poi sconfitto da Nixon – può essere sempre un attuale punto di partenza con cui guardare i limiti e gli inciampi delle proposte democratiche (pensiamo alla parabola di Bernie Sanders …).

E a proposito di Nixon: se in Tutti gli uomini del presidente (1976) Alan J. Pakula lavora sul libro Woodword e Carl Bernstein, l’inchiesta del «Washington Post» che aprì lo scandalo Watergate per raccontare le sue dimissioni di Nixon, De Antonio in Millhouse: a White Comedy (1971) illumina la sua affermazione, ragioni, appigli, fenomenologia (che è anche quella di una democrazia malata schiacciata dalle big companies, dal peso militare, dall’individualismo del profitto) seguendone l’escalation in politica dal 1946 alla vittoria che alle presidenziali del ’68.

NIXON versione «privata» appare in Our Nixon di Penny Lane (2013) che utilizza gli archivi Super 8, quasi degli home movies, girati alla Casa bianca dal capo del suo staff Haldeman tra il 1969 e il 1974, compresi i Nixon White House Tapes ovvero le conversazioni registrate di staff e famiglia. Oggi la presidenza è divenuta serialità: ma poteva accadere altrove che in America qualcosa come House of Cards?