Da oggi a Lodi prende il via la nona edizione del Festival della Fotografia Etica. Come scrivono Alberto Prina e Aldo Mendichi che, con il Gruppo Fotografico Progetto Immagine, organizzano la manifestazione, «questa edizione della rassegna internazionale si è data l’obiettivo di diffondere sempre più maggiormente il linguaggio fotografico, e la sensibilità culturale che ne consegue, tra i non addetti ai lavori». Nella sezione «Uno sguardo sul mondo» ci sarà anche Made in Korea e Korean Dream, parti del progetto comune di osservazione della penisola coreana e delle sue trasformazioni negli ultimi 64 anni di Filippo Venturi, un fotografo documentarista italiano, i cui lavori sono stati pubblicati in diversi giornali e riviste come «The Washington Post», «Financial Times», «Vanity Fair», «Die Zeit».

La tua immagine della penisola coreana prima di andare a scattare coincide con quanto hai trovato là?
Il mio lavoro sulla penisola coreana è iniziato nel 2014. Il primo anno l’ho trascorso studiando la Corea del Sud, osservando altri lavori fotografici sul paese, cercando contatti sul posto che potessero aiutarmi negli spostamenti, nell’entrare nei luoghi di mio interesse e nell’effettuare interviste. Soltanto l’anno successivo ho visitato il paese e realizzato le fotografie. La stessa cosa è avvenuta con la Corea del Nord: ho passato il 2016 a preparare il secondo capitolo del mio progetto (comprese la lunga burocrazia per ottenere il visto giornalistico) e nel 2017 ho viaggiato e fotografato il paese. In entrambi i casi avevo una immagine ben chiara della penisola ma, dopo averla attraversata, ammetto che è stato sorprendente constatare coi miei occhi gli effetti collaterali e non dei fenomeni che avevo studiato.

Quali sono le differenze che ti hanno colpito di più tra Nord e Sud?
La differenza nello stile e nella qualità della vita è incredibile e risulta curioso notare, per quanto riguarda la Corea del Sud, che in appena 60 anni il paese abbia compiuto i notevoli progressi economici e tecnologici a cui oggi ci ha abituati. I nord coreani, invece, vivono in una sorta di limbo.
Ho però avuto anche conferma dell’idea che i due paesi abbiano qualcosa in comune, quando si tratta dei giovani, sui quali pesano fortemente le aspettative dei rispettivi paesi.

Che tipo di ambientazioni e luoghi hai scelto per raccontare la Corea del Sud e perché?
In entrambi i paesi il mio lavoro si è concentrato sui giovani. In Corea del Sud ho voluto visitare gli ambienti dove studiano, coltivano i propri interessi e passano il tempo libero con la curiosità di assistere ai fenomeni del paese che mi avevano interessato: come l’importanza dello studio e i ritmi frenetici che affrontano gli studenti per ottenere i voti necessari per accedere alle tre università più prestigiose del paese; come la rilevanza di essere esteticamente accettati ricorrendo alla chirurgia plastica per avere gli occhi all’occidentale e, di conseguenza, gli effetti collaterali scaturiti dall’enorme stress a cui sono sottoposti i giovani, che sfocia nell’isolamento sociale, nell’alcolismo e, purtroppo, persino nel suicidio (La Corea del Sud ha uno dei tassi di suicidi più elevanti al mondo: 43 al giorno).

In che modo per quanto riguarda la Corea del Nord, hai lavorato per dare un’immagine diversa da quella ufficiale?
Sapendo che nel mio viaggio sarei stato scortato per tutto il tempo, ho deciso di fotografare i luoghi dove i giovani vengono formati e preparati ad inseguire il sogno coreano della riunificazione: mi riferisco ad asili, scuole, università e altri luoghi di studio pregni di simboli e messaggi della propaganda ai quali le mie stesse guide (o per meglio dire, «sorveglianti») erano ormai assuefatti e quindi la loro normalità era per me una realtà straordinaria, che ho cercato di fotografare in modo asettico e geometricamente perfetto, con l’obiettivo di trasmettere l’effetto teatrale, e quindi artificiale, dell’ambiente, comprese le persone, che sembrano in tensione, come in attesa di un segno di approvazione da parte del Supremo Leader.
Paradossalmente tutto ciò che mi era proibito fotografare – come i cantieri edili, eventuali segni di degrado di Pyongyang o magari qualche coreano ubriaco addormentato nell’aiuola di un marciapiede – non mi interessava e potevo mostrarmi ubbidiente con le mie guide, ottenendo così la massima collaborazione possibile quando dovevo scattare nei luoghi e nelle situazioni che loro ritenevano innocue.

In che modo la fotografia può modificare i nostri pregiudizi su alcuni luoghi del mondo?
La fotografia è un mezzo che, più di altri, può consentire ad un autore di ambire a descrivere un frammento della realtà e quindi anche di superare alcuni pregiudizi. Con il giusto approccio etico e senza la presunzione di avere tutte certezze in tasca, un fotografo può essere un testimone attendibile della realtà.