No, non è un caso che il primo Beat Museum aprisse, nell’aprile del 2003, in California a Monterey, proprio all’interno di una libreria. Già, perché la città di Monterey, superata la piccola e forse un po’ snob Carmel con le sue tante gallerie d’arte, è quella più vicina a Big Sur. Si erano fermati qui tanti protagonisti della scena Beat. Vi avevano vissuto, non ultimo Jack Kerouac che, angosciato dal peso della fama arrivata nel 1957 dopo la pubblicazione di On The Road, nel 1962 qui si era ritirato e aveva scritto un racconto autobiografico intitolato proprio come la cittadina americana: Big Sur.
Il Beat Museum di Monterey, nel giro di soli 3 anni, nel 2006, si è trasferito a San Francisco, dove in principio tutto era cominciato e dove la libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti resta ancora un punto di riferimento importante all’interno della San Francisco odierna. Anche il Beat Museum sta a North Beach, proprio su Broadway, a pochi passi da Columbus avenue e quindi da City Lights.
Jerry Cimino, il proprietario del museo sta pensando forse l’impensabile: raccogliere, tramite offerte e un’azione di crowdfounding su internet e Facebook abbastanza soldi per non essere più dipendenti dagli affitti che crescono sempre più. «Il museo – spiega Cimino dal suo ufficio all’interno del negozio su Broadway – è importante per non dimenticare quello che è stata la cultura Beat a San Francisco, una cultura che ha davvero cambiato il mondo. Raccogliamo molti ricordi, qualcosa ci è stato regalato, come la macchina da scrivere di Allen Ginsberg e, molto spesso arriva qualcuno che ci porta oggetti che arricchiscono la nostra collezione. Abbiamo le lettere e i manoscritti di poeti Beat, i loro dipinti. E poi ci sono gli amici di sempre e, solo poche settimane fa sono venuti a trovarci Jimmy Page e anche Patty Smith. A ogni ragazzino che non sa niente dei Beat e passa di qui, non manco mai di ricordare che, per esempio, Johnny Depp ha il nome Jack tatuato sul braccio, e ha scelto il nome di Jack Sparrow nella serie di film I Pirati dei Caraibi, perché è un grande ammiratore di Kerouac».
Cimino è riuscito a creare negli anni una rete di supporto – artisti, attori, filantropi, anche politici. Tutti che riconoscono l’importanza storica e culturale che la Beat generation ha avuto per la Bay Area.
«Stiamo cercando fondi perché viviamo a San Francisco – continua il direttore del museo – e non possiamo stare tranquilli per quanto riguarda gli affitti. Se non sei proprietario del tuo negozio, del tuo building, non puoi essere sicuro di poter contare su quello che possiedi. Per esempio, poco tempo fa il Cartoon Art Museum (http://cartoonart.org), aperto quasi trent’anni fa anche grazie al contributo di Charles M. Schulz, è stato chiuso dopo decenni di attività. Il nostro tentativo è di fare qualcosa in grande: lanciare una campagna di raccolta soldi per offrire al Beat Museum, proprio qui a North Beach, anche tramite il nostro sito www.Kerouac.com, una casa sicura».
Grandi poeti e artisti di quella generazione ci hanno lasciato da tempo, ma alcuni sono ancora a San Francisco e molti appassionati, di età diverse, stanno aiutando secondo le loro possibilità. «Ci sono diverse persone che hanno capito cosa abbia significato, per il mondo di oggi, avere avuto la fortuna di vivere nell’era della cultura Beat. Sul nostro sito abbiamo messo i nomi dei donatori, tra cui anche i cinquanta che hanno elargito di più». Fra i tanti nomi, David Amram, che aveva collaborato con Robert Frank per il suo storico corto Pull My Daisy, film in cui compaiono Allen Ginsberg, Gregory Corso e Carolyn Cassady, e narrato dalla voce di Jack Kerouac. C’è poi l’attore francese Jean-Marc Barr, che ha interpretato Jack Kerouac nel film del 2013 Big Sur, c’è un pizzaiolo, Tony Gemignani, per dodici volte vincitore mondiale per la miglior pizza fatta nel suo ristorante Capo a North Beach, ci sono i collaboratori e amici di Ginsberg, come Peter Hale, e i reali protagonisti di libri Beat, come Al Hinkle, raccontato come Big Ed Dunkel in On The Road (che è anche l’ultimo personaggio del libro ancora vivente). C’è il cantane Huey Lewis dei «Huey Lewis and the News», il cui patrigno era il poeta Beat Lew Welch, o l’appassionato svedese Magnus Toren, direttore della Henry Miller Memorial Library a Big Sur.
«L’obiettivo finale è ambizioso: raccogliere cinque milioni di dollari. Il prossimo gruppo a cui mi voglio rivolgere – afferma con malizia – è quello della Silicon Valley, perché in tanti lì, hanno seguito e stanno ancora perseguendo lo stesso sogno. Sono sicuro che troveremo qualche eroe, magari un imprenditore che vorrà donare…».
Del resto c’è da ricordare che Kerouac, aiutato nella sua depressione anche dalla permanenza nella «cabin» di Lawrence Ferlinghetti nei pressi del Bixby Creek a Big Sur, aveva avvicinato e studiato il Buddismo, e viveva in circoli che si proclamavano «free spirits», anticonformisti.
Come riconoscono ora in tanti, il cuore della controcultura era proprio una rivoluzione spirituale tanto che, lo stesso Steve Jobs, nei primi anni Settanta era andato in India accompagnato dal libro Dharma Bums di Jack Kerouac, volume a cui fu sempre molto legato.
«Anche i Beatles – ha aggiunto poi Cimino – che inizialmente si sarebbero dovuti chiamare «Beetles», preferirono cambiare il nome in Beatles così da potersi richiamare al mondo Beat. Per questo motivo, anche se suona un po’ paradossale, il mondo di Silicon Valley non sarebbe esistito senza la controcultura, senza l’apertura delle menti e il misticismo orientale».
Nonostante ciò, la giovane popolazione tecnologica di Palo Alto, Cupertino e Mauntain View, sempre alle prese con nuove start-up, generalmente non immagina un passato e una storia tanto «disordinate» e «alternative». I nuovi «maghi» hi-tech non si figurano che le loro radici affondano soprattutto nella filosofia zen, nella poesia, nella controcultura, nei movimenti ecologici, nelle droghe e nell’alcol, in una nuova ricerca della sessualità, in tutto quello che il Beat è stato e ha raccontato, liberandosi dei tabù.
«La Beat Generation ha rappresentato un grande valore per la Bay Area – ha sottolineato infine Cimino affacciandosi sulla ripidissima alley Romolo Place di fianco al museo -. Se così tanti giovani desiderano vivere qui, credo una delle ragioni sia che i Beat sono ancora grandi. A volte organizzo delle serate, in giro per la Bay area e alla Henry Miller Memorial Library di Big Sur, per raccontare cosa sono stati e cosa hanno rappresentato i Beat nell’America di quegli anni. Spesso, oggi, i diritti che guidano la nostra convivenza si danno per scontati, ma i Beat sono stati i primi a combattere per i diritti civili, per gli omosessuali e per le donne. Nel nuovo museo cercheremo di avere spazio per esporre più artefatti e spero riusciremo a creare spazi dedicati a Jack Kerouac, a William Burroughs, alla Summer of Love, alla musica jazz, a Ginsberg, alle diverse città dei Beat, New York, Parigi, all’Europa. Ci siamo messi in marcia per finanziare l’acquisto del nuovo museo».
La California, e soprattutto San Francisco, è sempre stata una meta per sognatori, per chi cerca di raggiungere nuovi obiettivi, nuove idee, per chi vuole esplorare nuovi modi di vivere ed essere. Questa città ha sempre attratto chi vuole inventarsi da capo. Era stata questa l’atmosfera che aveva portato i Beat a cercare qui le loro possibilità «alternative». I valori della Beat Generation restano allora in qualche modo legati a San Francisco e soprattutto a North Beach.
«I problemi adesso sono i prezzi delle proprietà immobiliari e oggi è quasi impossibile pensare di trovare casa a prezzi non impossibili… Quasi ironico, ma il Beat Museum non può essere altro che a San Francisco, a North Beach, e non potrebbe essere trasferito in nessun altro posto. L’unico modo per assicurargli una dimora senza sfratti, è riuscire a possedere l’intero palazzo. Così, nessuno potrà cacciare i Beat».