Come è strano trovarsi in questi giorni in una Londra scintillante di luminarie, in corsa verso il Natale – e in palpabile fibrillazione per il voto che emergerà dalle urne il 12 dicembre, quattro giorni esatti da oggi. Voto fatidico non solo per il Regno Unito, comunque andranno le cose. Se vincono i Tory, Boris Johnson terrà fede alla promessa fatta ai suoi elettori ed entro fine dicembre Brexit Done, capitolo chiuso, l’Europa dovrà rinunciare a quella svogliata partnership oltremanica (e però per Johnson non sarà facile rimettere insieme i cocci di una nazione che dopo oltre tre anni di agonia appare proprio spaccata). Se vincono i Labour, con un programma di governo che più radicale non si potrebbe.… beh, cambia tutto. Fine delle privatizzazioni, tramonto di un liberismo che è ormai sistema in tutto il mondo, Green New Deal: incredibile ma vero, in quella parte di mondo che ha coniato il dogma del TINA (There is No Alternative) di tatcheriana memoria, soffia il vento del Cambiamento. E anche se Corbyn non dovesse vincere contro Boris Johnson, per via di un sistema maggioritario che in UK non lascia scampo, il miracolo è già avvenuto: da impantanato che era sul tormentone Brexit Deal/No Deal, il dibattito si è spostato sui ben più importanti temi dell’iniquità sociale, rilanciando parole d’ordine di Solidarietà, Partecipazione, Attivismo, e insomma Socialismo (ma pensa te, Socialismo! persino tra i teenager) da rendere certa almeno una cosa: anche se non riuscirà ad arrivare a Downing Street, Jeremy Corbyn si è confermato in grado di catalizzare un movimento così anche numericamente significativo, che in aggiunta all’importante manifestazione di sostegno già incassata un paio di settimane fa da oltre 160 economisti, tra cui non pochi professori emeriti nelle migliori Università del Regno, stanno arrivando ora anche i VIP: attori, registi, scrittori.

E pensare che solo un mese fa, l’unico su cui il Labour potesse contare era il «solito» Ken Loach, che dal canale on line Double Down News diceva nel suo solito modo sottovoce le cose che da una vita racconta nei suoi film: circa l’urgenza di liberarsi dalla violenza di un sistema tritatutto – e circa il fatto che l’unico adatto al compito, sulla scena politica inglese, fosse Jeremy Corbyn. Ed ecco in questi giorni il vero e proprio crescendo: Hugh Grant che a sorpresa si aggiunge al porta a porta del canvassing, in un quartiere neanche tanto centrale, per «contribuire alla causa»: che è spodestare Boris Johnson. Per cui: niente dispersione di schede, anche se preferisci i Liberal Democratici, vota Labour. Seguito a ruota da una nutrita schiera di star dello spettacolo (Brian Eno, Massive Attack, l’ex Pink Floyd Roger Waters), del cinema e del teatro (i registi Mike Leigh, Aki Karismaki, Stephen Frears, gli attori Steve Coogan, Francesca Martinez, Mark Rylance, James Nesbitt), che insieme a Noam Chomsky, Naomi Klein, Yanis Varoufakis e tanti altri, scrittori, poeti, produttori, hanno mandato una lettera al Guardian in cui si dicono indignati «per i livelli di estrema disuguaglianza, e degrado ambientale causati da anni di liberalismo a livello globale… colpiti per la richiesta di un futuro più sostenibile e umano che si leva da ogni parte del mondo… e convinti che per quanto riguarda il Regno Unito, il manifesto elettorale di Jeremy Corbyn sia l’unica proposta in grado di dare priorità alle urgenze del pianeta e dei suoi abitanti, contro gli interessi di chi vorrebbe solo sfruttarlo – mentre Boris Johnson e il partito dei Tory non hanno altro da offrire che la prospettiva di una società ancor più divisa e diseguale (…) tra una alternativa concreta di speranza e la disperante realtà del presente, la scelta non potrebbe essere più chiara e urgente». Ecco, appunto.

Era cominciata più o meno così anche la scorsa tornata elettorale, che nella primavera del 2017 Theresa May si era illusa di vincere contro un Labour così sguarnito su tanti fronti (media, finanze, relazioni… per non dire delle divisioni al suo interno) e contro un Jeremy Corbyn che tutti (anche all’interno di una certa parte del Labour) davano per ineleggibile. Ma così non fu per l’elettorato più imprevedibile e volatile che esista, quello giovanile. In Jez o Jezza o anche Jezzabelle (questi i soprannomi che Corbyn si vide affibbiare in un crescendo di popolarità che ovunque finiva nei famosi coretti: «Oh Jeremy Corbyn…»), una fascia di età tra i 18 e i 25 anni che nessuno avrebbe mai pensato di riuscire a coinvolgere, vide un’alternativa all’indecenza del presente dato per immutabile, qualcosa che poteva chiamarsi speranza, visione, idea di futuro. Corbyn non le vinse quelle elezioni. Ma neppure Theresa May. E per formare uno straccio di governo ecco che i Tory furono costretti ad accettare una partnership quanto mai improbabile con l’irlandese Partito Unionista Democratico, sullo sfondo della sempre più spinosa Brexit.

Ai Corbyn watchers non restò che arrovellarsi sul segreto di quel Youth Quake (terremoto giovanile, come venne chiamato) che si era mobilitato intorno a lui: in parte sicuramente frutto di una formidabile orchestrazione sui social grazie a quella cosa che si chiama Momentum (formidabile task force di comunicazione esterna/interna al Labour); epperò non solo. Perché in effetti era proprio la ‘scoperta della politica’ da parte di una generazione che alla politica non aveva mai neppure pensato – e che improvvisamente si identificava nella passione di quel leader così diverso da tutti, così incredibilmente fresco nonostante gli anni; così coinvolgente nell’evocare un progetto di solidarietà e giustizia sociale che era stato l’orgoglio della Gran Bretagna nell’immediato dopoguerra. E che together, insieme (questa la parola chiave del Corbynismo allora come oggi) poteva essere ricostruito, anzi reinventato.

Fu alla fine di quello stesso mese che (colpo di genio) Corbyn fece la sua memorabile apparizione al Festival di Glastonbury, e di fronte a quell’immensa distesa di teste, corpi, sudori, umori pronunciò uno dei suoi discorsi più forti e applauditi: in favore di un mondo che non aveva bisogno di altri muri bensì di ponti, e di una società senz’altro più ricca sì, ma grazie all’inclusione, al confronto fra diversi. E alla fine del discorso, eccolo estrarre dalla tasca un foglietto con quell’appassionante incitazione di protesta che il poeta Percy Shelley ebbe a scrivere, dopo il massacro di uno di primi scioperi operai a Manchester, estate 1819: «Emergi delle tue catene… noi siamo in tanti, mentre loro così pochi…», che diventò poi lo slogan del Labour: For the Many, not the Few.

Momento importante, quel passaggio a Glastonbury, anche per l’amicizia che si creò con i vari Kano, JME, Akala, Novelist, Yizzy, Stormzy, le stars insomma della scena rap inglese: subito auto-convocati nel progetto #grime4corbyn, tuttora attivo e non poco seguito. In una lettera di una decina di giorni fa al  Guardian, che tutti i media non hanno potuto fare a meno di riprendere, eccoli di nuovo uniti intorno a Jez per dire: «Queste elezioni sono l’occasione di una vita, non facciamocela scappare… sono l’unico modo che abbiamo di mettere fine alla macelleria sociale che ci è stata inflitta per gli scorsi nove anni di governo Tory…». Risultato: nelle ultime ore che il 26 novembre precedevano il termine ultimo per registrarsi on line (perché alle elezioni inglesi non basta presentarsi al seggio, bisogna registrarsi prima), c’è stato un incremento di adesioni del 236 % rispetto al giorno precedente – ed erano per lo più giovani che certamente voteranno Labour. Corbyn ha ricambiato l’attenzione con un caloroso twitter il giorno dopo, debitamente ritwittato da chissà quanti tra i 1.26 milioni follower di Stormzy. Tutto ciò per dire che nonostante i media abbiano fatto di tutto per ignorare, anzi proprio oscurare questa straordinaria campagna elettorale che ha visto un Corbyn instancabile nonostante gli anni, nel macinare chilometri per essere letteralmente ovunque, determinato a replicare e possibilmente superare quell’inaspettato successo del giugno 2017 – sui social è tutt’altro film: teatri pieni, file che si accalcano per entrare, il paese percorso in lungo e in largo, dai più sperduti villaggi della campagna inglese, molti dei quali colpiti il mese scorso da una terribile alluvione, alle più comuni corsie d’ospedale, stazioni di polizia o vigili del fuoco, hub della logistica o cooperative di spazzini – e insomma tutto ciò che, anche senza più la ‘classe’ operaia, perché le industrie son migrate altrove, resta più che mai Labour, fatica durissima, in condizioni sempre più insostenibili, massima flessibilità e minime tutele, contratti a zero-ore, povertà in crescita, legioni di senza tetto ovunque, anche nelle zone più ricche di Londra, «situazione non più tollerabile in un paese che è la quinta economia più sviluppata del mondo».

Ce la farà? L’atmosfera che si respira in questo periodo a Londra, a pochi giorni dal 70mo anniversario della Nato che ha visto convergere (tra l’altro) a Trafalgar Square le delegazioni pacifiste di tutta Europa, è indescrivibile, un misto di trepidazione, euforia, ansietà… fiato sospeso. Che la partita non potrà considerarsi conclusa con il voto, è chiaro a tutti i partiti in corsa. Ma sono in molti a scommettere su Corbyn vincitore: gadget, street art, meme sui social… il mood è quello, e ci vuol poco a capire che è coinvolgente. I pronostici continuano a dare in testa i Tory… ma in rete non si contano gli eventi per il brindisi del 13 dicembre, data in cui bisognerà in ogni caso celebrare l’ottimo lavoro fatto. Insieme. Se poi sarà vittoria: Oh Jeremy Corbyn… si rimette in moto la Storia.