Andrea Ferreri in Sugli spalti. In viaggio negli stadi del mondo: storie di sport, popoli e ribelli (Meltemi, pp. 224, euro 18) intreccia il piacere del viaggio personale, lo splendore dello sport del calcio e le culture popolari.
L’autore ci racconta, nei venticinque capitoli che costituiscono il volume, di alcuni momenti che sono entrati nell’immaginario sociale, dei particolari di un preciso evento sportivo celebrato in uno stadio, di storie di vita rivoluzionarie, dei luoghi simbolo e dei modi in cui il calcio viene sentito e vissuto dai suoi tifosi.

IL CALCIO che Andrea Ferreri illustra, dal Medio Oriente al Sud America, dall’Europa all’Africa, presuppone la presenza di un pubblico negli stadi, è uno sport che produce aggregazione ma esalta anche l’individualità, lontano dalle pay-tv e dai diritti televisivi. Un calcio diremmo quasi ancestrale, che soddisfa bisogni come l’occupazione del tempo libero, la socialità o l’apprendimento di una tradizione avita.

Quel calcio trasmesso di padre in figlio, di generazione in generazione, con il corollario di comportamenti e valori conformi alle aspettative del gruppo e alla cultura di riferimento.
Questo calcio ha una sua forza vincolante e attiva una serie di rituali – coreografie, partecipazione collettiva, oggetti di culto –, la cui energia emozionale si esplicita nella costruzione di un’identità comune, ruota attorno alla devozione per la squadra e, partita dopo partita, travolge migliaia di appassionati.

SOGGETTI DI CLASSE e status differenti si mescolano negli stadi, dai popolari alle tribune, dai distinti al settore ospiti. Per un solo giorno della settimana, questa collettività individualizzata lotta simbolicamente per raggiungere lo stesso scopo, che si traduce nella difesa di uno striscione, di un territorio o nel prestigio della vittoria.
Nato per normalizzare e disciplinare le condotte sociali degli indisciplinati, per favorire l’iniziativa privata della classe borghese in funzione dell’impresa coloniale inglese dell’Ottocento, o per stimolare il coraggio dei giovani aristocratici, lo sport del calcio ha da sempre un legame con la letteratura, i costumi di una società e il concetto di sacro.

Per gli intellettuali della prima modernità, il calcio era legato a una dimensione distopica della vita, un gioco che andava contro natura poiché praticato con i piedi. Il calcio rappresentava un ostacolo all’evoluzione della specie umana – non a caso gli sport delle classi superiori erano giocati con le mani, come il rugby o il tennis.
Per gli intellettuali engagé, il calcio era uno strumento di distrazione, un’arma borghese che svuotava la vita dell’atleta e del tifoso dall’impegno politico, dal partito e dalla causa rivoluzionaria.

NELLE VARIE e contraddittorie riflessioni che accompagnano da sempre questo sport, c’è anche una letteratura che lo esalta. Pier Paolo Pasolini, Eric Hobsbawn, Osvaldo Soriano e Marc Augé intendono il calcio come luogo in cui si sacralizza un’ideologia laica. La sua chiesa è il rettangolo di gioco. I fedeli, sugli spalti, vivono per novanta minuti una condizione di trascendenza e di adulazione dei calciatori, con i quali si identificano e i quali, a loro volta, li rappresentano. Il calcio, in questo modo, ha la stessa funzione della religione, tiene insieme e unisce.
Dal complesso brasiliano dei vira-latas, passando per il Sud Africa di Nelson Mandela fino alle imprese di Beto Barbas e Pedro Pablo Pasculli al Via del Mare di Lecce, Andrea Ferreri con la memorialistica ricostruisce periodi storici tra loro lontani e che, slegati, non avrebbero nulla da dire. A tenerli insieme è un pallone di cuoio e una precisa concezione antropologica dell’uomo, il tifoso che vive di passioni.

Ironia della sorte, il libro di Andrea Ferreri esce nel periodo in cui la mobilità globale è imbrigliata e gli stadi sono vuoti. Il calcio, a questo riguardo, è sempre più fruito da casa, trasformato in prodotto commerciale, perno di una grande industria culturale che mesmerizza il pubblico sette giorni su sette.
Ma in quanto spettacolo, il calcio implica la compresenza di attori e pubblico, e oggi più che mai questa spettacolarità, ch’è centrale nella riflessione dell’autore, purtroppo ne risente.