La cura a Ilio (The Cure at Troy), Il ramo d’oro (The Golden Bough) e Testimonianza: il caso di Aiace (Testimony: The Ajax Incident) di Seamus Heaney sono, rispettivamente, un adattamento del Filottete di Sofocle, una versione del celebre passo del libro sesto dell’Eneide e una riscrittura di un passo dall’Aiace di Sofocle. Si tratta di tre traduzioni che mostrano come Heaney abbia dialogato con i testi originali antichi. La traduzione infatti, intesa come atto di ricezione e non come mera trasposizione linguistica, ricopre un ruolo centrale nell’opera del poeta irlandese, il cui interesse si rivolge prevalentemente ai testi della tragedia greca, sofoclea in particolare ma anche euripidea, e all’epica virgiliana.
I saggi raccolti nel volume Seamus Heaney and the Classics. Bann Valley Muses (Oxford University Press) approfondiscono il rapporto di Heaney con i testi classici, da Esiodo a Sofocle fino a Orazio e Virgilio – autentico ‘maestro di scuola’ per Heaney –, dando particolare rilievo al significato attribuito dal poeta al processo traduttivo come ricreazione del modello classico.
Il campo in riva al fiume (tratto dalla raccolta poetica Catena umana del 2010), che reca l’epigrafe «da Virgilio, Eneide VI 704-15, 748-51», rappresenta certamente il culmine sia dell’appropriazione creativa dell’antico sia della riflessione del poeta sulla traduzione. Nella prima terzina Heaney afferma infatti che, se gli venisse chiesto di tradurre i versi indicati in epigrafe, confonderebbe il fiume infero Lete con il Moyola, fiume della sua Irlanda. Nel prosieguo il poeta immagina di passeggiare in un ambiente che assomma in sé tratti dei Campi Elisi e, insieme, del paesaggio irlandese più caro al poeta, quello del podere della sua famiglia. La campagna irlandese e il mondo infero si sovrappongono pur conservando ognuno la propria riconoscibilità: il fiume Moyola diviene «figura» del Lete, le falene sostituiscono le api a cui, nella nota similitudine, Virgilio paragona le anime, e le ‘placide case’ (domos placidas) dei Campi Elisi si trasfigurano nelle case di Upper Broagh, borgo della Contea di Derry.
È interessante notare come Heaney intenda questa poesia come una traduzione e il procedimento ivi messo in atto come un vero e proprio ‘trasferimento’ del modello antico nella cultura e nell’esperienza di vita di chi riceve il testo. Questo ‘passaggio’ – per il quale Rachel Falconer, nel suo contributo in volume, parla di ‘trasplantation’ – avviene perché Heaney intende to translate non solo come ‘tradurre’, ma anche, in senso più etimologico (translate deriva dal latino transfero), come ‘trasportare’ e, appunto, ‘trapiantare’. È questo, perciò, il punto di vista da assumere nell’affrontare le traduzioni di Heaney, nelle quali convivono due realtà storiche, geografiche e culturali: quella antica, greca o latina, e quella irlandese. Il dualismo, che al lettore è chiesto di riconoscere e accettare, è il frutto di un processo di immedesimazione, quasi di immersione: nei testi della tradizione antica a lui cari Heaney trova realmente qualcosa di vitale per la sua stessa esistenza, autentiche rivelazioni che gli mostrano qualcosa di nuovo di sé e del mondo che lo circonda.
Ma in che modo Seamus Heaney, che non stravolge mai il testo antico per attualizzarlo, mette concretamente in atto questo ‘trapianto’? A una prima lettura i suoi testi si presentano come traduzioni fedeli – seppure con scarti vistosi dal punto di vista metrico. L’impressione di sostanziale corrispondenza è corretta perché gli interventi più rilevanti, quelli che consentono la comunicazione tra mondo antico e mondo moderno, sono attuati sul piano lessicale e coinvolgono quasi sempre singoli lemmi. Heaney, infatti, sceglie talvolta di adottare termini inglesi chiaramente moderni o addirittura parole dialettali tipiche dell’Ulster, creando – attraverso queste ‘interferenze’ – i presupposti per la comparsa anche dell’ambientazione moderna accanto a quella antica. In altri casi attinge al linguaggio biblico o liturgico (patrimonio della sua formazione cattolica) per tradurre i riferimenti religiosi e i rituali antichi. O ancora – e questo è probabilmente l’intervento più macroscopico – interpola singole parole o interi versi di autori moderni che la lettura del testo antico ha evocato nella sua memoria, ‘intrusioni’ motivate da una particolare consonanza tra i testi, o con il suo sentire. Per rispondere all’esigenza in lui sempre viva di rendere familiari i classici, Heaney interviene poi sugli elementi intraducibili o troppo lontani dalla cultura contemporanea. Di fronte ai nomi della mitologia, per esempio, egli assume atteggiamenti differenti: ora li lascia invariati, ora li elide, ora li adatta, come si può osservare nella resa dell’ecfrasi dei battenti del tempio di Apollo a Cuma (Eneide VI, 14-33), in cui traslittera il nome Daedalus nella forma joyciana ‘Dedalus’ – più nota al pubblico irlandese –, elimina, perché a suo giudizio troppo oscuri, gli aggettivi latini Minoïa (v. 14) e Chalcidica (v. 17), traduce Arctos (v. 16) con ‘North’ e Cecropidae (v. 21) con ‘Athenians’.
A eccezione delle sole interpolazioni da altri autori, gli interventi del poeta, coinvolgendo singole parole, sono armonizzati e ben occultati. La scelta di Heaney di ‘tradurre’ il testo attraverso il tempo, lo spazio e la cultura diventa dunque più evidente quando si ‘convive’ con le sue riscritture ben oltre la prima lettura, come testimoniano le parole di Helen Eastman, regista di una messa in scena di The Cure at Troy: «Era il 1999 e mi trovavo da dieci giorni nel mezzo delle prove di una nuova messa in scena di The Cure at Troy di Heaney, prima di rendermi conto che non stavo semplicemente dirigendo il Filottete di Sofocle in traduzione: i drammi di Heaney possiedono una loro struttura drammaturgica unica e loro sfide direttoriali».
Questa struttura drammaturgica originale è il risultato anche della presenza nel testo di parole o versi che, metapoeticamente, rimandano alla riflessione di Heaney sulla poesia e sulla sua funzione. Emblematico in questo senso è il coro, analizzato proprio da Eastman, che Heaney ha introdotto in apertura a The Cure at Troy: «E parte di voi, / per quanto mi riguarda è il coro, ed esso è / più o meno una linea di confine tra / la vostra, la mia e la sua parte» (trad. Fraccacreta-Paolinelli). Il coro – composto, nella tragedia, dai marinai di Neottolemo – non solo si dimostra consapevole del suo ruolo di mediazione tra i personaggi e, più curiosamente, tra il pubblico e la scena, ma, rivolgendosi agli spettatori, si assicura anche la loro attenzione su ciò che segue: «E questa è la linea di confine sulla quale / opera anche la poesia, sempre a metà / tra cosa vorresti accadesse e cosa sarà – / che ti piaccia o meno». In pochi versi, Heaney opera dunque una sovrapposizione tra il coro – che sta nel mezzo tra tutti i soggetti presenti – e la poesia, che, secondo lui, possiede la capacità di superare i confini, reali e concettuali, tra le cose e le persone, di svelare ciò che è nascosto e di rivelare la verità. In particolare, essa è veicolo ideale per rispondere alla storia e ai suoi eventi, soprattutto quelli tragici: i testi che egli traduce sono sempre scelti perché contengono un germe di questa verità che deve poter emergere affinché «speranza e storia» possano rimare. L’obiettivo di Heaney non si esaurisce dunque nell’avvicinare il lettore moderno ai classici: egli fa ricorso alla mediazione morale e narrativa degli antichi per riflettere sui problemi dell’attualità e, contestualmente, dare conto della sua posizione in between, tra le parti.
In questo modo rende non solo vitale, ma anche rilevante per l’esistenza stessa dei suoi lettori in quanto cittadini, un testo che potrebbe essere percepito come lontano, distante: vedendo trasfigurati sulla scena gli eventi che funestano la vita civile irlandese, gli spettatori e i lettori saranno indotti a riflettere. In The Cure at Troy, composto negli anni dei Troubles, la ferita che tormenta Filottete e il dramma morale di Neottolemo divengono la ferita provocata dalla guerra e lo stato di incertezza degli irlandesi. Le parole del coro assumono così un significato maggiore, e il coro stesso, «figura» sia dei marinai sia della poesia, diviene (anche) «figura» di Heaney e di quei cittadini irlandesi che, pur non parteggiando né per l’una né per l’altra fazione in guerra, si trovano coinvolti nei conflitti.
I contenuti, veicolati dalle traduzioni di Heaney trovano così il loro spazio entro i noti confini del testo antico, senza sostituirsi al messaggio etico originale ma traendo da esso ulteriore forza. In alcuni casi sembra proprio che i testi della tradizione classica forniscano al poeta non solo il materiale della poesia, ma soprattutto un modo per affrontarlo.