È mattina presto; in una sinagoga di Gerusalemme i fedeli hanno iniziato le preghiere del giorno. Due palestinesi armati di coltelli e di una pistola irrompono e uccidono quattro persone, ferendone altre sette od otto, prima di essere uccisi dalla polizia sopraggiunta.

Giovedì scorso Washington aveva fatto pressione sul primo ministro Netanyahu, e questi si era recato ad Amman con Abu Mazen. In realtà, protagonisti dell’incontro erano stati il re di Giordania Abdallah, il segretario di Stato americano John Kerry e il primo ministro israeliano, mentre Abu Mazen aveva partecipato ad accordi bilaterali. Chi vuole capire qualcosa di quel che sta succedendo deve fare attenzione alla successione degli eventi.

Il governo israeliano aveva annunciato che il giorno successivo la moschea di Al Aqsa sarebbe stata aperta a tutti senza limiti di età. Sono dunque arrivati oltre 40mila musulmani, senza alcun incidente. Quando la repressione diminuisce, si riduce anche la reazione alla repressione stessa.

Il governo israeliano attraversa una fase di profonda crisi relativa all’approvazione del bilancio, ai malumori interni alla coalizione e alla paranoia di Netanyahu, convinto che si stia congiurando contro di lui. Tutto questo è cresciuto negli ultimi quattro o cinque giorni, che sono stati di una tranquillità molto relativa. Grazie alla criminale stupidità di due palestinesi, la crisi sarà dimenticata e si potrà allegramente alimentare il fuoco che sta divampando. Per Hamas, già «contento» dei limitati progressi nei tentativi di evitare una crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, in conseguenza dell’ultima guerra israeliana, l’attacco (ma che potrebbe essere però un atto scellerato dell’assai debole Fronte popolare al quale appartenevano i due giovani attentatori) è un’ottima occasione per congratularsi con gli «eroi» che liquidano nemici sionisti nelle sinagoghe, rispondendo in questo modo ai crimini israeliani.

Hamas, assai indebolito, oggetto di nuove accuse da parte del Cairo per la presunta partecipazione all’attacco nel quale sono rimasti uccisi 30 militari egiziani, rischia di nutrirsi di cadaveri come i corvi; diversi suoi portavoce si sono rallegrati per quest’atto che avrà ampie ripercussioni. Le immagini degli abiti religiosi macchiati di sangue, i cadaveri dei quattro rabbini uccisi in sinagoga: il crimine ha un profondo potere evocativo. A parte il significato in sé, è anche un regalo, un grande regalo ai fratelli simbolici: i fondamentalisti israeliani. L’odio degli uni alimenta quello degli altri, scatenando una catena di fuoco che può bruciare tutti.

Non è sufficiente analizzare il contesto politico e ovviamente bisogna subito fare una considerazione chiara e netta: sono quotidiani i crimini dell’occupazione israeliana, come la politica sciovinista e fondamentalista del governo di Tel Aviv e dei suoi alleati, ma questo non può giustificare delitti come quello di ieri a Gerusalemme, né l’antisemitismo che prende piede in Europa.

Non solo sono atti brutali sul piano morale e politico ma, e gli effetti sarebbero ancor più gravi, minacciano di convertire il conflitto israelo-palestinese – che è un conflitto nazionale e politico, e può, deve trovare soluzione – in un conflitto religioso, islamico-ebraico, che non consente invece accordi ed è insolubile. L’analisi del conflitto e delle sue implicazioni non può attenuare la condanna di simili atti. Ma chiariamo bene una cosa: l’esplicita condanna di attacchi criminali come questo non può giustificare i crimini israeliani, quelli degli ultimi mesi e settimane e quelli che verranno e c’è già chi reclama vendetta.

La creazione di un governo palestinese di unità nazionale era stata un segnale di «pericolo» per il governo israeliano: mentre le discussioni con un presidente palestinese debole – Abu Mazen – potevano andare avanti all’infinito senza minacciare il progetto coloniale israeliano, un governo di unità nazionale poteva preludere a negoziati seri. Il rapimento e l’assassinio di tre giovani israeliani sono stati un regalo per il governo di Tel Aviv che ha così potuto avviare una violenta repressione in Cisgiordania e in seguito la guerra di Gaza, con oltre duemila morti fra i palestinesi.

L’episodio ha anche sciolto i freni inibitori a criminali razzisti ebrei; l’assassinio di un giovane palestinese a Gerusalemme – per «vendicare il sequestro» – ha innescato la miccia dell’incendio che è divampato in città in questi ultimi mesi.

Il «Monte del Tempio» – per gli ebrei, sulla cui spianata sorge la moschea di Al Aqsa, per la maggior parte dei rabbini è un luogo al quale gli ebrei non devono accedere, ma per alcuni ristretti gruppi fondamentalisti, privi di importanza fino a poco tempo fa, sarebbe il luogo dove ricostruire il Tempio, distrutto nell’anno 70 (d. C.). L’estrema destra israeliana ha subito colto l’occasione per infiammare la città, e rendere impossibili negoziati che erano possibili; deputati e politici hanno iniziato ad arrivare al Monte con dichiarazioni veementi contro lo status quo che assicura ai musulmani il controllo dell’area.

Debole e inefficace, il governo israeliano continua a nutrirsi di provocazioni e incitamenti razzisti; ogni attacco palestinese è un’eccellente occasione per gettare altra benzina sul fuoco. In Europa e nel mondo si susseguono le condanne.

Oggi stigmatizzano i palestinesi irresponsabili che con un crimine vergognoso hanno fatto il gioco di Netanyahu; domani lo faranno rispetto ai fondamentalisti dell’Isis, che pure sono un prodotto evidente delle guerre criminali avviate dal grande impero statunitense. Occorrerebbe invece iniziare un’azione reale a favore della pace, senza le menzogne, l’ipocrisia e il cinismo che contribuiscono a tragedie sanguinose, nella regione, o in Ucraina, e ovunque.