La prospettiva di una imminente uscita di Londra dalla Ue si fa sempre più concreta. Ma, a dire il vero, il Regno unito mantiene da sempre un piede fuori dall’Europa. Non fa parte dell’eurozona, si avvale di numerose esenzioni dalle regole europee (quelle bancarie, per esempio) che gli garantiscono di fatto uno statuto speciale. È vero che i fondi versati da Londra nelle casse dell’Unione sono, in valori assoluti, maggiori di quelli che ritornano nel paese, ma se si tiene conto del Pil e della popolazione britannica lo scarto è decisamente ridotto.

Minimo se confrontato con quello tedesco o di altri paesi dell’Europa del nord. Vero è anche che l’asse franco-tedesco ha sempre costituito il cuore della costruzione europea e il principale snodo delle sue ragioni storiche, suscitando ricorrenti diffidenze. Nondimeno, e anche grazie a questa sua relativa estraneità, a Londra spettava un ruolo non certo insignificante negli equilibri del Vecchio continente. Si trattava, insomma, dagli anni ’80 in poi, del paese più strettamente fedele al neoliberismo senza compromessi e di un freno perennemente tirato nel processo di integrazione politica dell’Europa, due aspetti decisamente complementari e interconnessi. Se voleva conservare la City entro i suoi confini, l’Europa avrebbe dovuto abbassare di molto le sue pretese di condivisione e regolamentazione. Non stupisce, allora, che le oligarchie europee possano guardare con dispiacere al possibile commiato del Regno unito, maestro di economiche virtù, fino a paventare una serie di catastrofiche conseguenze.

Tuttavia è assai improbabile che l’Unione europea decida pesanti ritorsioni nei confronti dell’esodo britannico. Il libero mercato e la circolazione del capitale finanziario non dovrebbero soffrirne più di tanto. L’uno e l’altra possono essere infatti garantiti da trattati accordi e dati di fatto scevri da ogni implicazione politica diretta e ben al riparo dai contraccolpi dell’opinione pubblica. I confini politici, si sa, contano assai poco in questo campo. Che l’accesso al mercato comune possa venire negato, anche solo in parte, all’economia britannica costituisce uno scenario poco credibile. Non si possono escludere, tuttavia, fenomeni di turbolenza e instabilità, fibrillazioni di borse eccitate dall’incertezza, ma siamo molto lontani dagli scenari catastrofici tratteggiati da Cameron durante la campagna referendaria.

Ma seppure il Brexit, come ritengono i suoi sostenitori, probabilmente non precipiterebbe l’economia britannica in una profonda crisi, resta il fatto che Londra nella Unione europea si è installata assai comodamente, disponendo di privilegi e strumenti che ne mettono largamente al sicuro la sovranità, ulteriormente rafforzati dai vantaggi recentemente strappati da Cameron a Bruxelles.

Cosicché le ragioni del «leave», almeno quelle che si possano definire razionali, restano assai deboli se non del tutto inconsistenti. Il fatto è che l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, qualora dovesse ottenere la maggioranza dei consensi, avverrebbe esclusivamente per pessime ragioni: quelle di un nazionalismo con tinte xenofobe (la blindatura nei confronti dei migranti resta tra gli argomenti principali), di un certo revanscismo antitedesco, di un pericoloso sentimento di sovrana superiorità. I toni del popolare quotidiano Sun, sceso in campo in favore del Brexit, non lasciano dubbi: «Consentirebbe di riaffermare la sovranità, di riabbracciare un futuro da potente nazione invidiata da tutti». Non è affatto un caso che su tutta la vicenda referendaria aleggino i successi elettorali dell’Ukip di Nigel Farage.

Non è dunque tanto il Brexit quanto il torbido vento che lo sospinge a destare la massima preoccupazione.

Se ci spostiamo sull’altra riva della Manica incontreremo, infatti, la stessa ambivalenza. In un certo senso la dipartita della Gran Bretagna, indebolirebbe il fronte dei più rigorosi avversari di ogni approfondimento dell’integrazione europea, per non parlare di politiche di solidarietà tra i membri dell’Unione. La quale perderebbe, inoltre, la più solerte vestale della dottrina neoliberista.

Cosicché i sostenitori di un’Europa politica più sociale e solidale potrebbero perfino apprezzare l’uscita di Londra e vedervi una occasione. Epperò in molti paesi europei circolano gli stessi veleni ideologici, le stesse paure indotte, gli stessi rigurgiti nazionalisti che gonfiano le vele degli antieuropeisti britannici. L’abbandono della Gran Bretagna rischia fortemente di alimentare proprio questi sentimenti sciovinisti. Se la maggioranza dei britannici dovesse esprimersi per il «leave», sarebbe prontamente presa ad esempio di riscossa nazionale dalle forze politiche antieuropee, i cosiddetti «populismi», che vanno crescendo in diversi paesi del continente.

Nell’Europa dell’Est già si levano voci su possibili, se pur imprecisate conseguenze di una eventuale defezione britannica. Da un pezzo è chiaro che da quelle parti i soldi europei vanno bene, ma le regole no. Certo, all’interno dell’eurozona o laddove le sovvenzioni Ue rappresentino un fattore importante dello sviluppo economico, le condizioni di una presa di distanza dall’Unione si rivelano molto più complesse che non in un paese come la Gran Bretagna che da sempre staziona sull’uscio dell’Unione. Nondimeno processi di disfacimento dell’incompiuta costruzione europea sono ormai ben visibili dall’Ungheria all’Austria, dalla Danimarca all’Olanda, mentre nubi nerissime si addensano sulla Francia. È qui che il rinascente sciovinismo deve essere combattuto.

Ma non si può far dipendere la sopravvivenza dell’Europa dall’esito del Referendum britannico. Non sarà «la fine della civiltà europea» e nemmeno l’anticamera della guerra come tuonano i profeti di sventura. Quel che deve essere chiaro è però che con o senza il Regno Unito (che ha ormai fatto il pieno delle concessioni possibili) il progetto europeo non deve essere abbandonato, lasciato dilaniare da una guerra tra poveri o prosciugare dai profondi squilibri alimentati dai dogmi che oggi lo tengono in ostaggio.