In uno dei momenti più drammatici della storia recente la presidenza della Repubblica rifiuta di nominare un governo che ha una maggioranza in parlamento in quanto potenzialmente antieuropeista. Con un atto di inaudita forzatura istituzionale il capo di Stato adduce la motivazione di tale rifiuto onde «fare tutto il possibile per evitare che i segnali sbagliati vengano trasmessi alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati, minando la fiducia e la credibilità esterna del paese che abbiamo lavorato duramente per raggiungere».

Non si tratta dell’Italia del 2018 ma del Portogallo del 2015, in cui il presidente Silva si rifiutò di nominare il socialista Antonio Costa capo del governo sebbene l’alleanza con i partiti di sinistra radicale gli consentisse di avere una comoda maggioranza. Così come in Italia, la coalizione fu autorizzata ad andare al governo solo dando assicurazioni che non sarebbero stati toccati gli equilibri degli «impegni internazionali». Tale pesante ipoteca ha avviato una linea politica che deve passare nello stretto pertugio fra le esigenze dei lavoratori (cui è stata promessa la fine della austerità) e le maglie della governance neoliberista della Ue. Tale dualismo si riproduce nei media. Da un lato si addita il «miracolo lusitano» come un virtuoso modo di governare che fa redistribuzione senza toccare la sacra Ue. Dall’altro si infittiscono gli scioperi di varie categorie: lavoratori portuali, pompieri, lavoratori della logistica, statali (scuole, musei, anagrafi, ospedali, tribunali hanno visto una partecipazione massiccia), che manifestano un disagio diffuso nelle classi lavoratrici.

La “virtù” portoghese consiste nella crescita. Che è un dato di fatto: Pil +1,8% (2015), +1,9% (2016), +2,7% (2017), +2,08% (2018). Ma altri indicatori non sono altrettanto positivi: la quota-salari rimane ancora più bassa di 5-6% che prima della crisi. Ed infatti la flessibilizzazione del mercato del lavoro ottenuta nel periodo di austerità (fra il 2011-13 il paese ha ottenuto un finanziamento di 78 mld per salvare le banche, in cambio del quale ha fatto una riforma che incrementa la precarietà lavorativa) non è stata modificata: la percentuale di lavoro precario sul totale rimane secondo Eurostat la più alta della storia recente. Ed infatti i consumi privati ristagnano: da +2,3% (2017), a +1,9% (2018) fino a +1,6 (previsione per il 2019).

E la austerità non è finita: la linea dei «conti pubblici in ordine» (la famigerata «cultura della stabilità» della scuola Ciampi-Monti) rimane immutata, con una produzione di avanzi primari degna di nota. Il maggior deficit del 2017 è dovuto al salvataggio della maggiore banca del paese cui sono stati attribuiti 2,7 miliardi di euro. Il country-report della Commissione Ue sfoggia infatti soddisfazione; ma si premura di osservare che l’export è diminuito, ed è comunque minore delle importazioni: fra il 2013-17 il saldo della bilancia è positivo, e il paese vende più di quanto compri in ogni anno, anche se di pochissimo (nel 2014 appena +0,081, praticamente in equilibrio), mentre nel 2018 il conto è in rosso di -0,61% sul Pil. Ma il peggio è che l’export sale come quota del Pil continua a salire, il che disegna una ripresa piuttosto fragile, in quanto non fondata sulla domanda interna.

La tutela dell’apparato comunitario, raggiunta grazie alla forzatura del capo di Stato sul Partito Socialista di Costa disegna insomma uno scenario in cui sono possibili solo limitate rimozioni delle misure di austerità (che qualche effetto lo ottengono: 2-3% meno persone a rischio di povertà, ripristino della tredicesima, aumenti delle pensioni minime e altro) che non sono sufficienti a cambiare i rapporti di forza a favore dei lavoratori; le forze sono impiegate alla riduzione del debito pubblico (che cala dal 130% al 119% sul Pil).