Dopo i saluti, le scuse. It’s sorry time, mentre il prossimo 7 gennaio si riapre la corsa alla leadership Labour. Dalle colonne dell’unico Daily a lui non ostile e che flirta a capo scoperto con la leggibilità, il Mirror, domenica Jeremy Corbyn ha vergato di suo pugno una richiesta di perdono. I quasi sessanta seggi persi nel nord, prossimi ad accogliere i neodeputati conservatori scesi in massa ieri a Londra per installarvisi, glielo imponevano. «Mi spiace di non essere stato all’altezza e me ne prendo la responsabilità» ha scritto l’ex leader in pectore, puntando il dito su Brexit come cardine di questa sconfitta. Ma non ha fatto quello che più ci si aspettava da lui: l’atto di dolore e di contrizione sulla linea tenuta, anzi. «Sono orgoglioso che il nostro sia stato un messaggio di speranza, anziché di paura», ha avuto l’ardire di aggiungere.

Disgrazia vuole che nemmeno possa mollare all’istante, come molti non vedrebbero l’ora da quel 2015 che glielo vide piovere sul capo non si sa bene da dove. Questo perché non può essere sostituito immediatamente: Tom Watson, il suo vice/controllore, se n’era andato un pelo prima delle elezioni. John McDonnell, suo sodale e cospiratore in capo, ha anche lui annunciato la propria resa. Ma il post-Corbyn non sarà immediatamente un ritorno alla politica da ufficio marketing del blairismo: quelle precondizioni economico-sociali sono passate e non torneranno. I potenziali successori alla leadership sono tutti del Nord e molti nella scia del leader uscente: Lisa Nandy, Clive James, Keir Starmer (soft left non corbyniana), l’accesa centrista Jess Phillips, e le due corbyniane Rebecca Long-Bailey e Angela Rayner. Tutti devono ancora dare conferma, mentre oggi si riunisce il gruppo parlamentare, speriamo non in assenza di personale paramedico.

Il cristianesimo penitenzial-protestante e antimachiavellico di cui il partito laburista è intriso fin dalla sua fondazione aveva messo Corbyn in croce per mesi. Prima, quando ancora rischiava di vincere, perché si rifiutava di credere che la questione dell’antisemitismo fosse peculiare e specifica del partito laburista, o della sinistra che lui rappresentava. Il suo – evidente, non dissimulato – fastidio per questa operazione era papabile nell’imbarazzante tour dei salotti televisivi mattutini e serali prima delle urne per far vedere “ai nostri amici a casa” che Lavrentij Beria non si era reincarnato a Islington North. Aveva chiesto scusa. A denti stretti, ma l’ha fatto: soprattutto per rettificare una precedente, calamitosa intervista con Andrew Neil, temuto cane da guardia della Bbc, tanto imparziale da presiedere il gruppo che controlla lo Spectator, l’illustre settimanale Tory di proprietà dei fratelli Barclay. Quanto al pericolo scampato dai circa 200mila ebrei britannici: ora sarebbe lecito aspettarsi dai media altrettanta inflessibilità nel denunciare il vero antisemitismo, quello di destra. Altrimenti saremo autorizzati a illuderci che i fascisti siano rimasti senza la loro ragion d’essere principale.

Adesso che ha perso così malamente, Corbyn deve chiedere di nuovo scusa, soprattutto perché lui e i suoi hanno perso per tutti. Anche questo rientra in una lunga tradizione laburista, consolidata nell’ultimo mezzo secolo per via della dinamica fra il centro destra maggioritario e la minoritaria sinistra per cui Corbyn rappresentava la prima vera occasione dagli anni Ottanta. La dinamica è grossomodo così riassumibile: nell’era pre-Brexit i centristi perdevano, chiedevano scusa e lasciavano il passo ad altri rappresentanti un po’ meno centristi che applicavano diligentemente gli stessi rimedi peggiori dei mali che avevano causato la sconfitta. Corbyn ha interrotto questo samsara diventando un utilissimo capro espiatorio/alibi per incolpare il ritorno al socialismo come foriero di sicura sconfitta e scusa per riaffermare gli stessi stilemi neoliberali i cui guasti il suo stesso avvento inaspettato aveva evidenziato in modo irrevocabile. In questa luce, Brexit diventa la benedizione con cui il centrodestra labour si può reimpossessare della leadership, pur essendo ovviamente loro stessi ad aver scavato il fosso con il nord ex rosso che, assieme al nazionalismo d’accatto sciattamente cavalcato da “Boris”, ha determinato l’esito elettorale. Corbyn, inspiegabilmente finito al vertice di un partito pavido, grettamente corporativo e imperialista nel peggiore dei casi, fabian/keynesiano e tutto diritti civili nel migliore, ha perduto cercando di colmare questo fosso.