Per ora silenzio. Neanche una parola di risposta. Certo, si potrà obiettare che questa è una pratica “normale” per Google che rarissimamente risponde alle sollecitazioni sui diritti umani. Ma stavolta in ballo non ci sono progetti, dichiarazioni: ci sono vite, ci sono persone che rischiano. Di fare la fine di Jamal Khashoggi, il giornalista assassinato e fatto a pezzo nell’ambasciata saudita di Istanbul. Sì, perché si parla di Riad, del regno che riempie quotidianamente le cronache dei media internazionali per le sue violazioni dei diritti umani.

Di che si tratta? In due parole: nel suo blog ufficiale, a dicembre dell’anno scorso – poco più di un mese fa – Google ha annunciato il varo di tante nuove infrastrutture sparse in tutto il mondo. E in quel lungo e dettagliato messaggio, con toni trionfalistici, ha rivelato che allestirà un nuovo cloud in Arabia Saudita.

Un gigantesco spazio di archiviazione dati – una nuvola – con sede proprio a due passi da Riad.

Il messaggio che si può leggere adesso nel blog non è però lo stesso che è apparso la prima volta, è una seconda stesura. Tagliata. Perché nella prima versione, c’era scritto di più (come ha documentato l’agguerritissima associazioni mondiale per i diritti telematici AccessNow): lì, si annunciava che il cloud storage sarebbe stato utilizzato innanzitutto da Snap Inc, il colosso che gestisce Snapchat, uno dei più diffusi social media, soprattutto fra i giovani.

Social – attenzione – che, dopo i ripetuti tentativi del regno saudita di offuscare e spiare Twitter, è utilizzato da quasi quattordici milioni di persone nel regno mediorientale.

Facile immaginare cosa significherà un cloud dislocato fisicamente a Riad. Facile immaginare quali vantaggi porterà a Google che da lì, garantirà praticamente tutti i servizi on line alle più grandi imprese petrolifere e alle grandi compagnie finanziarie. Facile anche immaginare però che contropartita in termini di privacy abbia chiesto – o potrebbe chiedere – la dinastia che domina il paese.

L’allarme è stato lanciato subito.

 

 

AccessNow assieme al CIPPIC – un centro studi sui temi delle libertà digitali dell’università di Ottawa – hanno protestato e soprattutto hanno provato a chiedere garanzie sulla protezione dei dati da parte di Snapchat. La risposta? Non c’è stata, non c’è mai stata.

Google s’è limitata a cancellare, come detto, il testo che riguarda la partnership con Snap Int. nel suo blog. Tutto qui. La società che gestisce il social – la Snap Inc. – tempestata di proteste, ha fatto anche meno. Ha scritto un comunicatino dove spiega che alla base del suo successo c’è il fatto i suoi messaggi ed i suoi video vengono cancellati dopo che sono stati visualizzati. E che al massimo si “limitano” a transitare sul cloud.

Ma le cose, ovviamente, non stanno così. Chi vuole far vedere a un maggior numero di utenti i propri contenuti di Snap (col servizio Our Story) deve rivelare la propria identità. Iscriversi insomma. E i dati sono conservati.

E’ esagerata allora la preoccupazione delle associazioni? La risposta è nelle notizie che arrivano ogni giorno dall’Arabia Saudita, con le sistematiche violazioni dei diritti più elementari, con gli assassinii, con le detenzioni.

Ma c’è di più. Forse non tutti ricordano il caso di qualche anno fa, quando lo stesso dipartimento di Giustizia americano annunciò sul proprio sito l’apertura di un’inchiesta su due (naturalmente oggi ex) dipendenti di Twitter, reclutati dal governo saudita per estrapolare i dati di un numeroso gruppo di dissidenti.

I due, Ahmad Abouammo, cittadino statunitense, e Ali Alzabarah, saudita, furono accusati di agire come agenti del regno senza registrarsi presso il governo degli Stati Uniti.

E – cosa ancora più drammatica – le indagini accertarono che i due cercarono nel data base di Twitter non solo i nomi e cognomi di chi denunciava il regime di bin Salman ma anche la loro esatta ubicazione. Dove abitavano, insomma.

Resta da dire che, misteriosamente, in maniera assolutamente incomprensibile, dopo aver istruito la causa e dopo una lunga detenzione di uno dei due imputati (e con la precipitosa fuga in Arabia Saudita di una terza persona coinvolta), pochi mesi fa il pubblico ministero ha fatto capire di voler ritirare le accuse. Per altro gravissime. Senza fornire alcuna spiegazione, che neanche i giornalisti di Bloomberg sono riusciti a scoprire.

Una stranissima “raccomandazione” ai giudici perché dimentichino una vicenda che – altrettanto stranamente – è avvenuta quasi in concomitanza con l’annuncio del nuovo cloud saudita di Google.

Resta da dire che le associazioni per i diritti digitali non si rassegnano. E hanno riscritto alle Big Tech. Hanno chiesto una risposta entro i primi giorni di febbraio, hanno chiesto come pensano di poter difendere l’anonimato degli utenti, la loro privacy, che qui significa la loro vita.

Per ora, però, tutto tace.