È un silenzio mortificante, quello del premier Matteo Renzi davanti alle smentite e ai depistaggi egiziani. Mentre l’ambasciatore di Al Sisi in Italia, Amr Helmy, mantiene il punto fermo sulla versione ufficiale confermando che Giulio Regeni «non è stato arrestato dagli apparati di sicurezza egiziani come citano alcune fonti dei media» e arriva a invitare gli inquirenti italiani a «prendere distanza dai mass-media» perché così richiede la «professionalità delle indagini congiunte», dal governo italiano si alza la voce troppo solitaria del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, a ribadire che «non ci accontentiamo di ricostruzioni facili o di verità di comodo».

Risale a venerdì scorso, il giorno dei funerali del giovane ricercatore friulano, l’ultima prudente esternazione del presidente del consiglio che nel porgere le condoglianze alla famiglia fece sapere: «Noi agli egiziani abbiamo detto: l’amicizia è un bene prezioso ed è possibile solo nella verità». Poi più nulla. Eppure non sfugge nemmeno a Renzi che qualcosa non quadri nella «massima collaborazione dalle Autorità Egiziane a tutti i livelli» confermata ancora ieri dall’ambasciatore Helmy.

Tanto che gli uomini del Ros e dello Sco inviati al Cairo dalla procura di Roma dovranno attendere gli esiti della rogatoria internazionale formalizzata ieri per poter visionare i materiali delle indagini avviate dalla procura di Giza, i tabulati telefonici di Giulio Regeni o le immagini delle telecamere di sorveglianza dell’area dove presumibilmente il ricercatore si mosse prima del sequestro, nella sera del 25 gennaio. Mentre è ormai appurato che anche il supertestimone che si è presentato presso l’ambasciata italiana al Cairo affermando di aver visto due poliziotti in borghese portarsi via Giulio attorno alle 17.30, è solo l’ultimo tentativo di depistaggio delle indagini italiane, come dimostrano i contatti telefonici e via Facebook che Regeni ebbe con la fidanzata e con il professor Gervasio.

E ad ammettere che «dall’Egitto non sta arrivando la verità» che l’Italia dovrebbe «pretendere», è stato il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, che in un’intervista a Qn afferma: «Il governo egiziano per difendersi dalle minacce jihadiste ha messo in campo tutti i mezzi leciti e anche quelli non sempre leciti. Apparati che dipendono dalle forze armate e altri dal ministero dell’Interno e io temo che questa storia si collochi in una sorta di antagonismo e competitività tra pezzi dello Stato. Non escludo che per un drammatico eccesso di zelo di qualche apparato si sia ritenuto il nostro giovane parte di un puzzle più ampio e pericoloso per lo Stato. È ormai acclarato – conclude Casini – che le torture e l’atroce strazio di Regeni siano state un’opera di killeraggio da parte di gruppi di squadre speciali». Anche il capogruppo di Sinistra Italiana alla Camera Arturo Scotto ha rinnovato l’invito al governo Renzi di mostrare più fermezza nel rifiutare «di essere presi in giro da un regime autoritario».

Eppure ieri Gentiloni, a Bruxelles per il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue, a domanda si è limitato a rispondere: «Sul caso Regeni il governo italiano mantiene una posizione molto ferma. La nostra partnership, che è una partnership importante, deve anche tradursi, in casi come questi, in una piena collaborazione per l’accertamento della verità. È chiaro che noi non è che ci accontentiamo di ricostruzioni facili o di verità di comodo, ed è altrettanto chiaro che il passare del tempo non attenuerà il nostro impegno su questa questione». Il passare dei giorni però gioca a favore di chi vorrebbe che la morte di Giulio Regeni, al quale è stato inflitto probabilmente lo stesso trattamento riservato a centinaia di oppositori di regime, finisse nel dimenticatoio. Ma il ministro Gentiloni mostra invece molta pazienza: «Nei prossimi giorni faremo il punto con il team investigativo che è da una decina di giorni al Cairo per verificare i frutti di una collaborazione che noi ci aspettiamo, e che ci aspettiamo sia piena e totale da parte delle autorità egiziane».

Nell’attesa, altri accademici amici di Giulio si sono mobilitati con un altro appello, dopo quello firmato da 4.600 docenti e studiosi di tutto il mondo. Ieri Hannah Waddilove, ricercatrice all’Università di Warwick, e Neil Pyper, docente e amico di Regeni a Cambridge, hanno inviato una lettera al governo britannico affinché prema sulle autorità egiziane per chiedere verità e giustizia. Sostengono i due accademici che quel terribile omicidio di un giovane ricercatore dell’università britannica configura una «violazione della libertà accademica» e, più in generale, un attentato ai principi di libertà. «Come parte del nostro sforzo, come parte della società civile a tutela della libertà accademica, in particolare in quei Paesi in cui il pericolo della violenza è reale, – scrivono i due firmatari – chiediamo a tutti di aderire a una petizione rivolta al Parlamento britannico per chiedere che ci aiuti a far sì che il caso di Giulio sia sottoposto a un’investigazione indipendente e imparziale».