Molto prima che l’esploratore britannico Hugh Willoughby nel 1553 tentasse per primo di appurare (invano) l’esistenza di un «passaggio a nord-est» – una rotta che partendo dal Mare del Nord doveva condurre all’oceano Pacifico –, e ben prima che numerosi tragici e infruttuosi tentativi concedessero infine il primato allo svedese Adolf Erik Nordenskjöld tra il 1878 e il 1879, quel misterioso tratto di mare era già stato percorso un’infinità di volte dalle balene. E sono proprio le balene a divenire loro malgrado le indiscusse protagoniste di una storia che attraversa all’incirca un secolo di spedizioni nel mare Glaciale Artico.

IL CRITICO D’ARTE ed esploratore inglese Sir Martin Conway, medaglia d’oro della Royal Geographical Society, nel 1906 scrisse un celebre trattato che ricostruisce la storia dei viaggi nell’area del globo che si estende tra i 74° e gli 81° di latitudine nord, e i 10° e i 34° di longitudine est. No Man’s Land lo intitolò, terra di nessuno, poiché è solo dal 9 febbraio del 1920 che le Isole Svalbard – questo il nome di quelle terre oggi – sono diventate ufficialmente suolo norvegese (ma con diritto di sfruttamento del territorio da parte dei firmatari dello Svalbardtraktaten). Prima non erano che territorio di contese tra olandesi, inglesi, russi, francesi, danesi e norvegesi.

Il Sorgfjord – letteralmente «fiordo del dolore» – a nord della maggiore delle Svalbard, Spitsbergen, ospitò tra l’altro nel 1693 la battaglia navale combattuta più a nord della storia: due fregate di Luigi XIV contro una flotta di baleniere olandesi si sfidarono tra i ghiacci a 79° N: vinsero gli olandesi. Erano estremamente attivi e presenti in quelle zone poiché fu proprio il navigatore olandese Willem Barents – che darà il nome all’omonimo mare – a scoprire nel 1596 l’isola di Spitsberg, o Spitsbergen, in olandese «montagne aguzze». Una terra bagnata da un oceano «indolente e stagnante» come scrisse Conway, «difficile da remare, ove anche il vento fatica a levarsi, ove la luce del sole che tramonta perdura sino all’alba soffocando la luce delle stelle, ove si può udire il suono del sole che sorge».

BARENTS SBARCÒ e prese possesso di quella terra a nome dell’Olanda. Aveva ancora a bordo della sua nave le merci destinate alla Cina, che non vedrà mai. La nave restò imprigionata tra i ghiacci e l’equipaggio fu costretto a svernare nella zona nord-orientale della Novaja Zemlja: era il giugno del 1597, la prima volta nella storia che un gruppo di europei svernava a 76° N.
I resti della baracca di Barents saranno ritrovati trecento anni dopo dal battello per la caccia alle foche del norvegese Elling Carlsen, grazie al quale oggi il Rijksmuseum di Amsterdam può esibire i resti della spedizione. Il racconto dei viaggi di Barents – The true and perfect description of three voyages, so strange and woonderfull, that the like hath neuer been heard before – pubblicato a Londra nel 1609, all’epoca fu un best-seller internazionale.

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SE L’APPRODO a Spitsbergen segnò la fine delle velleità del commercio europeo con la Cina attraverso un passaggio a nord-est, esso inaugurò però una nuova via per uno dei commerci più floridi del secolo, quello del grasso di balena, che veniva convertito in olio per le lampade. Ma non solo, anche i fanoni dei cetacei erano utilizzati per i corsetti, la lingua era un cibo prelibato che si vendeva nei mercati di Biarritz, Bayonne e Ciboure, e l’olio per i profumi era molto richiesto.
Iniziava la grande corsa alla balena verso Nord, a maggior ragione perché, a quanto sembra, il celebre golfo di Biscaglia nei Paesi Baschi cominciava a scarseggiare di cetacei e nel XVI le guerre tra Francia e Spagna avevano indebolito la leggendaria supremazia basca nella caccia ai grossi mammiferi marini. Si apriva così una lunga stagione di dominio commerciale degli olandesi, che per ovviare ai disagi dovuti alla conservazione del grasso a bordo delle navi cominciarono a costruire delle stazioni di caccia nell’arcipelago delle Svalbard, allora chiamate Isole Spitsbergen.

IL PIÙ NOTO e chiacchierato tra questi villaggi nati a ridosso del commercio era quello di Smeerenburg o «città del grasso», in olandese, sull’Amsterdamøya, l’Isola di Amsterdam, al largo della costa ovest di Spitsbergen. Inizialmente fu una stazione solo temporanea, ma a partire dal 1617 divenne un centro stabile dove portare i cadaveri delle balene predate per lavorare la materia prima. Innanzitutto, si tagliava il grasso in lunghe strisce che venivano poi sminuzzate in pezzi più piccoli da fondere in grandi forni emisferici di mattoni. L’olio così ottenuto veniva fatto decantare in grossi contenitori, dei tini per metà pieni d’acqua, ove le impurità si depositavano sul fondo e infine l’olio era travasato in barili e pronto per essere caricato sulle navi in partenza per i grandi porti europei.
Nel 1920 il celebre esploratore norvegese Fridtjof Nansen scrisse di un suo viaggio alle Svalbard nel resoconto En Ferd Til Spitsbergen (Un viaggio a Spitsbergen), con il quale alimentò ulteriormente le voci che ancora giravano sulla vecchia città di Smeerenburg. La leggenda voleva che «la città del grasso» fosse nei mesi estivi una vera e propria Bengodi, dove il grasso colava anche metaforicamente: un florido porto commerciale brulicante di gente – si diceva ospitasse fino a diecimila visitatori l’anno – un centro pieno di negozi, pasticcerie, taverne, una chiesa, dei forti difensivi e persino dei rinomati bordelli.

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TRA IL 1610 E IL 1640 partivano dall’Europa tra le cinquecento e le seicento navi all’anno alla volta delle Svalbard, i cui uomini si esaltavano al frequente grido «Soffia! Soffia!», grazie al quale era possibile risalire alla specie di balena a cui dare la caccia. Non è mai stato registrato il numero esatto di cetacei macellati, poiché non tutte le nazioni erano così precise nell’inventariare le prede, tuttavia deve essere stato assai elevato: nel giro di un quarantennio, l’area di caccia dovette spostarsi sulle coste americane, inaugurando un’altra leggendaria stagione di inseguimenti e commerci, della quale il maggior portavoce sarà senza dubbio Melville. La cosiddetta Balaena mysticetus, o balena franca della Groenlandia, era così ormai quasi estinta a metà del Seicento nelle coste di Spitsbergen e intorno all’arcipelago della Novaja Zemlja.

Oggi Smeerenburg è disabitata, è una località fantasma che conserva pochi resti ancora visibili di un mondo che non esiste più. Già intorno al 1660 la città non risultava più abitata. In realtà, i racconti di quel mondo vivace e dorato sembrano essere esagerati: tra il 1979 e il 1981 infatti, numerosi scavi archeologici hanno permesso di elaborare una stima degli abitanti della città.

LE PAVIMENTAZIONI rinvenute permettono di risalire a un numero non maggiore ai venti edifici, in grado di ospitare non più di duecento-quattrocento persone al massimo per volta. Lo spazio di terra piatta, peraltro, libero dalle frastagliate montagne, non avrebbe consentito la costruzione di altri edifici, inoltre tutte queste persone afferivano alla lavorazione del grasso, per cui sono ancora visibili i resti dei grandi forni. Una fusione di olio di balena, pietrisco e sabbia hanno reso questi resti simili a cemento, aumentando il senso di abbandono e desolazione che infondono le rovine. Il resto l’ha spazzato via il vento gelido, coperto il ghiaccio o la sabbia.

L’area oggi fa parte del Parco nazionale dello Spitsbergen nordorientale. Non si può camminare tra queste rovine, la stratificazione di materiali è alta e rende il terreno pericoloso e inoltre non è consentito raccogliere mattoni o residui di sartiame. Non si odono più gli uomini che gridano «Soffia!», ma forse si può tornare a udire il suono del sorgere del sole.

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SCHEDA

«Oggi abbiamo fatto un giro sull’isola di Amsterdam, per vedere tra l’altro le rovine della vecchia città baleniera di Smeerenburg («città del grasso»). È un piatto banco di sabbia. C’erano dei legni spiaggiati, ma delle rovine non è rimasto che qualche cumulo di detriti sulla spiaggia: lì dovevano esserci stati i grossi calderoni per la fusione del grasso. Più avanti sulla spianata abbiamo trovato una vecchia tomba con i resti di quella che doveva essere una bara. Ma era aperta e piena d’acqua, si vedeva la parte superiore di un teschio solitario, sembrava ridesse, come un’allegoria dei rovesci della fortuna (…). C’era un’intera città con bancarelle e strade allora, due secoli e mezzo fa. Diecimila persone d’estate, il frastuono dei magazzini, delle bollitorie del grasso, delle bische, fucine e laboratori, taverne e bettole dove si ballava. Questa spiaggia piatta pullulava di imbarcazioni con i marinai che tornavano dalla caccia alla balena e di donnette dagli abiti variopinti a caccia di uomini. E tutto questo per procurare grasso all’Europa, ma ancora di più per fornire alle signore le stecche che avrebbero distrutto i loro corpi con i bustini e le rigide sottogonne» (da «En ferd til Spistbergen», Jacob Dybwads forlag Kristiania, GAD, Kjøbenhavn, 1920)