Molte delle trasformazioni attualmente in corso – e che il COVID pare accelerare – si inscrivono nella transizione digitale ; fra esse si segnala quella del lavoro, che sta cambiando sotto il nostro naso in modo significativo : secondo una rilevazione della banca centrale belga di aprile scorso le aziende si aspettano che lo smart working anche dopo il superamento dell’emergenza pandemica triplichi rispetto alla fase pre-COVID ; già adesso il 32% dei lavoratori presso le 3884 imprese belghe del campione lavorerebbero da casa in modo fisso e il 15% occasionalmente.

Il recente testo di Savino Balzano (Contro lo smart working, Laterza 2021), sindacalista, studioso di diritto del lavoro e battagliero saggista, cerca di portarci verso questo mondo del futuro. Un futuro che è già un presente per molti, tanto del pubblico impiego che per i settori privati, e che viene spesso magnificato dai media come la panacea per risolvere le tensioni vita privata – lavoro senza passare attraverso una conflittualità di classe. A questo immaginario tecnocratico e suadente Banzano contrappone vari tipi di rischio che comporta una adozione acritica dei nuovi modelli di organizzazione lavorativa.

Nonostante il titolo, non si esclude che alcune forme di lavoro a distanza abbiano avuto una funzione significativa nella contingenza emergenziale o che anche in futuro non possano avere dei vantaggi per i lavoratori. Ma mentre i possibili pregi sono percepibili nella immediatezza, i lati negativi si potranno rilevare nel medio-lungo termine, quando sarà presumibilmente troppo tardi per tornare indietro. Perciò occorre farsi carico dei rischi con una regolazione normativa adeguata a stabilire varie tutele per impedire che una promozione selvaggia del « lavoro agile » (la traduzione di smart working) si riveli un cavallo di Troia a favore esclusivo delle aziende.

Quali sono concretamente questi rischi? Un allontanamento dalla rigidità dell’orario di lavoro per ritrovarsi tempistiche segmentate in maniera invasiva rispetto ai ritmi di vita ; possibile sconfinamento nel tempo libero – ai limiti, distopicamente, della loro indistinguibilità di fatto ; la individualizzazione di problemi sanitari e di adeguatezza della sede ; la intercambiabilità dei lavoratori – al riparo dagli sguardi dei colleghi che non possono più verificare la collocazione dei carichi di attività – in modo da massimizzare la produttività e al limite da sterilizzare ogni tipo di sciopero ; adozione di dispositivi di sorveglianza sul modello call center tali da annulare ogni autonomia ; lo sgravio di costi di sedi (affitto, energia, ecc.) facendoli ricadere sui lavoratori stessi.

Una visione pessimista? Va detto che il testo non è una pacata sequela di assunti astrattamente volti ad una prospettiva analitica, ma di lucide considerazioni di chi vive il conflitto in prima persona e tasta il polso di un fatto che costituisce uno degli assi del libro : il rapporto di lavoro – non si stanca di ricordaci l’autore – è di natura asimmetrica di per sé, con una parte più forte (quella datoriale) e qualla dei subordinati dall’altra ; e va riequilibrato dalle leggi dello Stato a tutela dei lavoratori, nonché dalla loro organizzazione collettiva – cioè dalle sigle sindacali.

Ma questo porta al secondo asse del testo : la sua insistenza della comunità dei lavoratori e del legame sociale come fondamento della Costituzione repubblicana, che in prospettiva possono subire uno sgretolamento significativo: se tutti fossimo lavoratori a distanza, una molteplicità di solitudini confinate nel proprio ambito domestico – ma controllate da moderne forme di panopticon – cosa resterebbe di esso?

E della democrazia? Questioni cruciali, visto che i processi di finanziarizzazione non si riducono ad un autoreferenziale microcosmo di speculatori, ma impattano su tutto il compesso dell’economia, in specie sulla segmentazione del mondo del lavoro cui può portare lo smart working nei rischi profilati da Savino Balzano.