Il congresso è, nella vita di un movimento, sempre un passaggio significativo e importante. Si tratta di tracciare le prospettive di azione e di pensiero per gli anni a seguire, di valutare il percorso fatto e di ripensare priorità, linee di indirizzo, strumenti e metodi.

Quello di Slow Food a Chengdu è stato certamente un congresso di svolta sia dal punto di vista organizzativo che contenutistico, anche perché è avvenuto in un momento storico di particolare importanza dal punto di vista del cibo.

Negli ultimi quindici anni la situazione del sistema alimentare globale si è modificata ed evoluta a ritmi impressionanti e inimmaginabili.

Da una parte abbiamo assistito a una progressiva concentrazione del potere di filiera nelle mani di pochi, con un inarrestabile aumento di oligopoli e grandi gruppi che controllano enormi fette di mercato con una forza contrattuale e un potere di influenza assolutamente sconosciuto in passato.

Dall’altra è emerso con ulteriore chiarezza e inconfutabilità un fenomeno destinato a incidere drammaticamente sullo scenario della produzione del cibo su scala globale: il cambiamento climatico. Desertificazione, aumento delle temperature medie, estremizzazione dei fenomeni atmosferici e modificazione dei cicli stagionali stanno infatti già oggi stravolgendo il modo in cui viene prodotto cibo in alcune aree del mondo, obbligando a spostare colture più a nord o più in alto, costringendo ad abbandonare aree di produzione storiche per concentrarsi in città. È chiaro dunque che gli effetti fisici portano con sé gravi conseguenze sociali e culturali.

Partendo da questo quadro globale, la scelta di svolgere il settimo congresso internazionale di Slow Food in Cina è apparsa quasi inevitabile: proprio là, infatti, si giocherà tanta parte della partita del futuro dell’alimentazione mondiale e proprio là è necessario costruire le basi per un nuovo modello produttivo che sia sostenibile ed equo per tutti.

Tornare a un rapporto equilibrato tra uomo e natura, limitare il depauperamento dei suoli agricoli, rallentare o frenare l’inurbamento selvaggio, ripopolare le campagne garantendo un reddito giusto ai contadini, garantire sicurezza alimentare e salute, rispristinare un ambiente altamente compromesso sono dunque sfide che interessano tutti noi ma che in Cina vedono un terreno di scontro inevitabile e urgente.

Questo è il contesto in cui si è svolto l’appuntamento di Chengdu, nel quale Slow Food ha riaffermato tre linee di azione per i prossimi anni: difesa della diversità in tutte le sue forme, impegno nell’avviare e supportare processi e buone pratiche che vadano nella direzione della democratizzazione della filiera alimentare e infine forte accento sulla centralità della questione educativa.

Quando parliamo di tutela della diversità, ovviamente includiamo in primo luogo la diversità biologica che è minacciata da questo sistema produttivo. Varietà vegetali e razze animali che rischiano di scomparire perché non funzionali al mercato. Non possiamo e non vogliamo tuttavia fermarci a questo aspetto, perché cibo significa anche diversità culturale e sociale, perché dietro ogni produzione esiste l’adattamento dell’uomo a un territorio, esiste la maniera in cui le comunità si sono organizzare, come hanno ritualizzato i momenti comuni, come hanno costruito le proprie identità. Slow Food deve essere in prima fila per difendere tutta la diversità, per valorizzarla ed esaltarla, dentro e fuori dal movimento. In questo senso il progetto dell’Arca del Gusto (cui è stata dedicata una delle sei mozioni approvate) continuerà a giocare un ruolo decisivo, ma non sarà l’unico.

L’apertura alla diversità è l’unica cifra possibile per un movimento che a livello globale voglia fare politica attraverso il cibo.

Riaffermare il ruolo che Slow Food può ricoprire nella redistribuzione della ricchezza all’interno della filiera alimentare significa invece implementare e promuovere buone pratiche che consentano di invertire la rotta della concentrazione. Da questo punto di vista molto è già stato fatto (non certo solo da Slow Food) ma la rivoluzione completa è ancora lontana.

Ecco allora che i mercati contadini (che consentono ai produttori di bypassare i distributori e dunque di strappare prezzi migliori senza pesare sulle tasche dei cittadini), le comunità di supporto all’agricoltura (gruppi che si impegnano a comprare i prodotti dai contadini di piccola scala in anticipo in modo da non farli ricorrere alle banche), gli orti urbani individuali o collettivi, la produzione di prossimità sono esempi viventi che qualcosa sta cambiando. Noi dobbiamo essere megafono e promotore di questo processo perché da qui passa il futuro del nostro cibo.

Infine, per toccare l’ultimo punto, educazione e informazione hanno un peso enorme nella costruzione del cambiamento. L’educazione è fondamentale perché garantisce la memoria e la continuità. Oggi il cordone ombelicale che consentiva la trasmissione dei saperi tra generazioni e che per secoli ha tenuto insieme le comunità si è progressivamente reciso e va ricostruito, pena la perdita di un enorme patrimonio di savoir-faire. E poi informazione e conoscenza, perché senza informazione non esistono scelte consapevoli, in sostanza non esiste scelta.

Non solo, perché oggi viviamo un’epoca in cui è cruciale lavorare per il superamento dell’abisso che esiste tra scienza ufficiale e saperi tradizionali. Come Slow Food vogliamo arrivare alla prossima edizione di Terra Madre, nel 2018, a convocare, insieme alle comunità del cibo di tutto il mondo, centinaia di università da tutti i continenti proprio per cercare un terreno comune di discussione, di scambio e di operatività per superare questa dicotomia.

Questi slanci politici hanno bisogno di una struttura adeguata a raccogliere la sfida. Dobbiamo allora puntare fortemente su un approccio inclusivo e fluido, superando forme burocratizzate e rigide per arrivare a dare vero e definitivo compimento la dimensione forte di rete che ha distinto l’operato di Terra Madre fin dalla sua nascita e che nei fatti ha già rivoluzionato il nostro movimento.

Questa parte dedicata al nostro cambiamento di pelle interno ha visto protagonisti i giovani, che nei fatti la praticano già e che per un movimento di natura mondiale è l’unica strada. Lacci e laccioli rappresentati da regolamenti e regole non sono funzionali rispetto a una rete che deve intercettare la complessità del mondo.

Ecco, la parola d’ordine è proprio qui: la complessità del mondo, che non si può controllare né respingere, solo abbracciare e accogliere. Slow Food è pronto più che mai a mettersi in gioco.

* presidente di Slow Food Internazionale