C’è da attendersi che il moltissimo tempo libero cui si è costretti dal virus e dalla conseguente quarantena possa dar vita a dei Post Coronial Studies, che leggeranno tutta la realtà non più nel senso del dominio del Gestell tecnologico o del Kapitale satanico, ma del Virus. Sebbene con un tono meno infiammato e più sobrio del consueto, Virus, di Slavoj Žižek (traduzione di Valentina Salvati e Federico Ferrone, Ponte alle Grazie, pp. 48, € 3,99) sembra confermare questo sospetto.

Žižek scrive cose che, da lui, potevamo facilmente prevedere, e cioè che la crisi richiede una rinnovata solidarietà, ossia «una nuova forma di quello che un tempo chiamavamo comunismo» (appena possibile, sarebbe una buona idea sostituire il pugno chiuso alla stretta di mano) e che il «capitalismo si avvicina alla fine» (direi che prima di allora avranno trovato il vaccino) svolgendo argomenti di grande buonsenso. Dopo aver rilevato l’assurdo del riconoscere nel virus un complotto securitario che prende il posto del terrorismo, se la prende con il riduzionismo sociocostruttivista che vede in ogni evento, anche naturale, l’esito di un complotto e soprattutto cita un passo di una comunicazione personale del sociologo e architetto Benjamin Bratton che da solo vale il libro e indica un programma di ricerca e di riflessione per i filosofi, e in genere le persone di buona volontà, disposte a trarre da ciò che avviene insegnamenti e spunti di ricerca e innovazione, invece che la conferma di vecchi paradigmi: «La Cina ha introdotto misure che l’Europa occidentale e gli Stati Uniti con ogni probabilità tollererebbero a stento, a loro discapito, forse. Senza girarci attorno, è un errore interpretare riflessivamente ogni tecnica di rilevamento e modellazione come ‘sorveglianza’ e la gestione alacre della cosa pubblica come ‘controllo sociale’. Abbiamo bisogno di un lessico diverso e più sfumato per parlare dell’intervento». Parole non sante ma sagge, che però meriterebbero di non ridursi al semplice caso della sorveglianza. Abbiamo bisogno di inventare nuovi concetti per un nuovo mondo, e questo chiede tempo, ma intanto possiamo ripensare dei nomi vecchi. Ne elenco sette, non per ragioni cabalistiche ma perché non posso andare oltre le dodicimila battute.

Virtuale

Abbiamo passato gli ultimi decenni a leggere deplorazioni del fatto che la nostra vita di relazione è ormai svanita, e volata sulla nuvola del virtuale. La quarantena, con le restrizioni di movimento e di contatto che ci impone, dimostra che tutte quelle discussioni erano vuote, false e nel migliore dei casi concettualmente inadeguate. Non eravamo affatto entrati nel mondo dello spirito, eravamo ancora e sempre carne, appetibilissima per il virus, che si trasmette con grande facilità proprio perché non ce ne stiamo in casa, ma andiamo in giro, ceniamo, sentiamo concerti, prendiamo aperitivi, saliamo su treni, autobus, aerei. È questo il virtuale? Chi vuole, può crederlo. E ovviamente il culto del virtuale non ha portato il minimo ripensamento sulla natura del reale. È stato Marx a farci notare che Don Chisciotte si basa sugli effetti stranianti che derivano dalla sopravvivenza di modi di vita e di ideali feudali in un mondo in cui il feudalesimo è scomparso. Rispetto al mondo industriale, l’umanità si trova in buona parte nella stessa situazione di Don Chisciotte. Crediamo di vivere, insieme, in una nuvola, e in un mondo che non è molto diverso da quello analizzato da Marx, e dunque ci immaginiamo gli stessi problemi (l’alienazione sul lavoro, lo sfruttamento e la mancanza) e le stesse soluzioni che si sarebbero potute trovare cent’anni fa. Non stupisce che le soluzioni non risolvano (perciò la sinistra è in crisi e il populismo ha successo), e che si creino conflitti tra valori, in particolare fra la tutela del lavoro e la tutela dell’ambiente.

Apocalissi

Sino a pochissimo tempo fa era difficile non leggere delle lamentele sull’uragano di messaggi che si abbatte su di noi, sul cogito interruptus e su altre sciagure della postmodernità. Non so quanto sincere fossero quelle lamentele, ma di sicuro ora hanno perso ogni ragion d’essere. A volte, dalle crisi in cui va di mezzo la vita, e non solo i soldi, si esce con un patrimonio di buone idee e di buona volontà, con una rinnovata voglia di vivere e di fare . L’apocalitticità da due soldi che ha caratterizzato molta riflessione degli ultimi decenni, dall’annuncio della fine della storia alla tesi secondo cui le guerre finanziarie sono molto peggiori di quelle reali, si rivela per il niente che è e che era, una volta che un virus mostra la sua efficacia. Varrebbe la pena di osservare, a beneficio degli apocalittici, che una delle ragioni per le quali il virus ci preoccupa, è che la nostra sanità, a misura di quanto è avanzata, potrebbe da un momento all’altro entrare in crisi; cinquant’anni fa, senza terapie intensive, il problema non si sarebbe posto. Sarebbe stata un’ecatombe, anche se non proprio come la Spagnola visto che il Coronavirus sembrerebbe essere meno aggressivo. Ecco una prova incontestabile del fatto che l’umanità va verso il meglio, che la scienza fa progressi e che la medicina è un sapere a cui dobbiamo tutta la nostra riconoscenza e non un Komplotto delle multinazionali.

Biosfera

Di passaggio, l’epidemia ci ricorda una cosa ovvia, ma che si è portati a dimenticare quando, non senza ingenuità, si definisce il Web come una infosfera, un mondo virtuale che poco alla volta inghiottirà il mondo reale. Ovviamente non è così. L’intelligenza artificiale si nutre di intelligenza naturale, cioè dei nostri comportamenti, e questi sono determinati dal fatto che siamo organismi, con un metabolismo che ci impone ritmi vitali. Il Web non è affatto una infosfera, ma una biosfera, un ambito in cui la vita viene registrata, calcolata, definita nelle sue regolarità, e soprattutto in cui la vita detta i tempi e le urgenze, tanto nelle condizioni ordinarie quanto in quelle straordinarie.
Proprio perché la nostra è una biosfera, conviene che ce ne stiamo a casa. Il che offre una possibilità unica alla vita degli individui e delle collettività, quella di dedicare del tempo alla riflessione e alla progettazione, a partire dalle contingenze (per esempio, come si organizza un insegnamento a distanza e come si perfeziona il telelavoro? Sono cose che torneranno utili in futuro) per poi venire a piani di più lungo respiro, che possono trarre un enorme vantaggio dal silenzio circostante. Un esempio fra i tanti. Chi diceva «dobbiamo salvare il pianeta» diceva una nobile sciocchezza. Ci sono forme di vita, tra cui il Coronavirus, che si sostituiscono a noi con successo, alla faccia dell’antropocene (concetto in se stesso dubbio e che ora rivela tutta la sua presunzione), riducendo le polveri sottili e l’inquinamento più di ogni decreto. Non dobbiamo salvare il pianeta, dobbiamo salvare l’umanità, che è tutto un altro paio di maniche.

Mani

«Umani, lavatevi le mani». Nel Trattato della creazione dell’uomo, che risale alla fine del quarto secolo della nostra era, Gregorio di Nissa stabilisce una correlazione essenziale tra l’acquisizione della mano e lo sviluppo del linguaggio, che Darwin riproporrà senza variazioni quattordici secoli più tardi. Se gli umani non avessero le mani, allora il loro volto, come quello dei quadrupedi, avrebbe una forma allungata, labbra adatte non ad articolare parole ma a brucare, e una lingua spessa e callosa buona per impastare gli alimenti. Il prerequisito per la formazione del linguaggio è meno il possesso di una massa cerebrale particolarmente sviluppata (come sarebbe logico seguendo l’ipotesi di Aristotele e di Heidegger) che non la disponibilità di una mano, d’accordo con Anassagora e Derrida. La mano libera la bocca, i denti e la lingua, e li rende disponibili per la parola: passaggio che non va inteso semplicemente come uno sviluppo fisiologico, ma anche come un evento tecnologico, economico e sociale. Perché la mano, diversamente dalla bocca, può munirsi di bastone, e procedere a una serie di capitalizzazioni che sarebbero impossibili se la bocca dovesse compiere l’ufficio della mano.

Globalizzazione

Il virus ci ricorda anche ciò che il buon senso non dovrebbe mai farci dimenticare, e cioè che la terra è rotonda, con buona pace dei terrapiattisti, e che dunque gli esseri umani, così come i virus, sono destinati a entrare in contatto invece che a disperdersi. Non solo i virus, ma le idee, non conoscono confini; il virus è indubbiamente meno interessante delle idee, ma dal virus, come da ogni difficoltà, possono venir fuori delle buone idee. O si possono smentire le cattive idee. Se ci fate caso, si è di colpo cessato di parlare di sovranismo, e gli stessi che esortavano a cacciare i migranti si lamentano adesso degli italiani trattati come appestati. È il caso manifesto in cui una idea confusa e anacronistica trova la sua immediata obsolescenza alla prova dei fatti. O più esattamente si rivela per quello che è: egoismo. Lo si potrà magari nobilitare, come fece Antonio Salandra quando giustificò come «sacro egoismo» il venir meno ai patti con l’Austria e la Germania e la discesa in campo a fianco dell’Intesa, ma sempre egoismo è. Come il cosmopolitismo, e per gli stessi motivi (la terra è rotonda) la globalizzazione è un destino, ed è un destino auspicabile, visto che riduce le differenze tra gli esseri umani e ottimizza la ridistribuzione delle risorse. Immagino l’obiezione di chi osservi che la globalizzazione ottimizza anche la distribuzione dei virus, e mi è capitato di leggere in questi giorni che il Coronavirus ci presenta il conto della globalizzazione. Difficilmente si potrebbe dire qualcosa di più sbagliato. La peste nera che nel Trecento uccise un terzo della popolazione europea veniva dalla Cina proprio come il Coronavirus. O c’era la globalizzazione nel Trecento (il che in un senso è vero, ma per ogni tempo, appunto perché la terra è rotonda) o il Coronavirus non ci presenta il conto di un bel niente.

Resto

Concludendo il suo intervento Žižek svolge delle belle considerazioni sul carattere ontologico del virus, a metà strada tra la vita e la morte, che vive solo a contatto con il vivo. Del resto, la pretesa di vivere a tutti i costi, per un mortale, è la più assurda che si possa avanzare. Lo ricordava bene Federico il Grande alla battaglia di Kolin, 18 giugno 1757, che esortò i suoi soldati mentre stavano già arretrando: «Cani, volete vivere in eterno?» È una frase che ci richiama a ciò che Schelling nomina come il «resto non superabile».
Žižek lo cita e commenta che nella sua condizione di semivivo e di semimorto il virus è proprio l’emblema di un simile resto. Mi sembra una bella immagine, e sospetto che a sua volta Schelling avesse in mente Isaia, che parla di un resto che ritornerà, sopravvissuto alla distruzione (un passo considerato da molti la matrice del messianismo). Il resto è dunque, proprio come il virus, un monumento della morte nella vita e un monumento della vita nella morte, ed è ciò che ci fa vivere, morire e nel frattempo pensare.