Warburg, l’Atlante Mnemosyne, tavola 56

 

«Il buon Dio vive nei dettagli», diceva Aby Warburg. Il suo progetto era di connettere dettagli e affinità, ombre delle idee fermate nei gesti delle opere d’arte, per edificare un atlante iconologico reticolare, capace di restituire un’intera morfologia della civiltà ricostruendo il gioco di energie e di opposizioni dinamiche che dà forma e senso alle immagini. S’innamorò della Ninfa riconoscendola nel movimento seducente della fanciulla che il Ghirlandaio aveva colto al volo come una farfalla nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Poi lo inseguì per anni, quel gesto, sui sarcofaghi, nei dipinti, in innumerevoli minuzie ricondotte genialmente a «far sistema» in un percorso mentale e culturale vastissimo.
Invece, di Michelangelo, il più grande allievo di Ghirlandaio, Warburg si occupò poco. Però almeno in due tavole dell’ormai celebre Atlante di Mnemosyne, la 53 e la 56, pose implicitamente in rapporto, accostandoli per esaltarne il dinamismo semantico, alcuni dettagli degli affreschi della Sistina, i giovanili Antenati di Cristo nelle lunette della volta (1511-’12) e il maturo Giudizio Universale (1535-’41). In essi intuì forse una traccia di quel maestoso, occulto progetto che Giovanni Careri definisce «fabbrica del corpo glorioso», ricostruendone la vicenda in un libro densissimo, di alto profilo culturale, elegantemente warburghiano nel metodo interpretativo e nell’ampiezza della documentazione (Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, pp. 293, euro 28,00).
Questo libro affascinante, che «decostruisce» la Cappella smontandone il moto figurativo depositato lungo trent’anni di straordinaria concentrazione da uno dei più grandi artisti di ogni tempo, mi riporta alla memoria un piccolo capolavoro quasi dimenticato (e che conto di riproporre presto), La cattedrale come spazio dei tempi, pubblicato da Friedrich Ohly nel 1972. Ohly propose di «leggere» la Cattedrale di Siena come «immagine architettonica di storia della salvezza che parla attraverso le sue forme foggiate in gradi biblici al pari, su un altro piano, della cronaca universale nella letteratura e della rappresentazione del mondo figurata». Secondo la sua acuta interpretazione quello spazio sacro produce l’«inglobamento del passato e del futuro in un tutto che sta dinanzi agli occhi», recuperando l’effetto emozionale e devozionale di un «processo di visualizzazione» per cui «il fluire della storia diventa un bene stabile». Nella Cattedrale di Ohly, come nella Sistina di Careri, davvero «la storia del mondo si evolve in rappresentazione del mondo»: l’edificio si trasforma nello «spazio figurativo e temporale di una mappa mundi cosmica».
Nella Sistina, invece che la riproduzione dell’universo, il tema è la storia della Salvezza. Giovanni Careri dimostra con erudizione e sottigliezza ermeneutica quali energie spirituali, teologiche, ideologiche, si confrontano e si scontrano in quel luogo straordinario, in cui Michelangelo concentrò uno sforzo titanico, non solo artistico ma anche ermeneutico e teologico, depositandovi un pensiero nutrito dalla corrente degli Spirituali stretti intorno al cardinale Reginald Pole a Viterbo (con lui, a leggere il Beneficio di Cristo, c’erano anche Vittoria Colonna e Sebastiano dal Piombo).
Michelangelo raffigura in cifra, con Agostino e Paolo nella mente, «il passaggio dalla filiazione carnale alla filiazione divina dal punto di vista della storia cristiana, come pure la necessità antropologica di definire l’identità cristiana in rapporto al suo “altro”». Rappresenta così la salvezza dell’umanità che si staglia in un campo di tensione fra il tempo messianico e il paolino katéchon, la frenante forza d’inerzia con cui la temporalità storica incarnata negli Antenati, cioè insieme «gli ebrei “ostinati”» e «il cristiano negligente», ne ritarda l’adempimento. In questo senso la Cappella Sistina è attraversata da energie formidabili, e si trasforma in un teatro della memoria, in un dispositivo mnemotecnico di metamorfosi interiore simile a quello che Giulio Camillo ideò negli stessi anni: il percorso che lo spettatore compie nello spazio vivo, con il suo corpo e il suo sguardo, è un cammino iniziatico. L’«istanza del soggetto» coinvolge sia chi dipinge sia chi osserva, giacché «il corpo glorioso» dell’uomo può venir ‘fabbricato’ attraverso un’«inclusione» spirituale, che Careri definisce «conformazione per somiglianza» rispetto al corpo di Cristo.
Sono certo che a Warburg, e anche ad Ohly, sarebbe piaciuto questo Michelangelo segreto, colmo di straordinarie Pathosformeln, riportato alla luce da Giovanni Careri. Il metodo con cui è impostata la sua colta, molto documentata e originale «antropologia della Cappella Sistina», si fonda sull’«analisi cinematica della pittura» e sul riconoscimento di un «“montaggio” delle immagini messo a punto da Michelangelo stesso», che «il montaggio di Warburg non fa che riprendere e sviluppare». Questo montaggio è di fatto il cinema mentale dell’artista, che lo storico riporta in vita attraverso un’antropologia dell’immagine, e soprattutto del suo intrinseco dinamismo.
La Sistina è compresa come un organismo vivente, in cui le immagini invitano l’osservatore all’«attualizzazione del significato teologico e devozionale» che accennano, grazie al «montaggio patetico» con cui sono connesse. Proprio di un «montaggio patetico» che coinvolge le percezioni fisiche, le immagini mentali, gli affetti di chi entra nell’opera d’arte con il corpo e con la mente, Giovanni Careri parlava nel suo primo libro, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «Bel composto» di Bernini (Laterza, 1991). E anche allora si richiamava a quello che il grande regista russo Sergej Eizenštejn definiva «il montaggio delle attrazioni», «un’operazione estetica di scomposizione e ricomposizione di un molteplice eterogeneo che si compie nello spettatore». Rimeditando l’intuizione di Eizenštejn, il quale come Warburg (probabilmente senza conoscerlo) parlava di «formule del pathos», Careri coglie, nel corpo vivente della Sistina, «la dinamica indotta dal passaggio da un sistema all’altro», e rilegge il Giudizio universale, accanto alle pareti di Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, «come un’uscita dalle categorie visive della storicità umanista che regolano i cicli degli affreschi quattrocenteschi rispetto ai quali il grande affresco della parete di fondo viene non solo ad aggiungersi, bensì a “montarsi”».
Il Giudizio del Michelangelo maturo è in dialogo anche con la volta del Michelangelo trentenne: e Careri dimostra, con un’argomentazione serrata e molto solida, come gli Antenati, nelle lunette del soffitto, «incarnano il ruolo di contrappeso terreno al movimento d’ascensione e di caduta dei personaggi eroici», mentre il gesto possente del Cristo nel Giudizio, di fronte allo spettatore, diviene «il nucleo generativo di una serie di onde, espressione di una forza che attraversa i corpi, li lega fra loro e dà loro forma». Cristo, con «l’impulso dato dalla furia del movimento», nella serpentina del suo corpo immenso, non solo condanna i reprobi, ma accoglie e salva i giusti.
Quel gesto costituisce un vortice ambivalente, fra parousia e terribilità, a cui gli astanti, nel dipinto e nello spazio della cappella, possono corrispondere compiendo l’«assunzione di somiglianza» che otterrà la loro «conformazione» gloriosa. Il tempo del Giudizio è quindi il paolino tempo che resta, «un tempo che si contrae e comincia a finire». È un’immagine dialettica, perfettamente benjaminiana: «corrisponde all’orizzonte temporale verso il quale gli affreschi delle pareti e quelli della volta dispiegavano le loro narrazioni e i loro annunci, ancor prima che il grande affresco della parete dell’altare venisse a dar figura visibile a questo punto di fuga del tempo, sino ad allora implicito». In una simile catastrofe il «punto di fuga del tempo della storia» si rovescia, messianicamente, «nel punto di vista privilegiato per comprenderla».