È a Roma Geert Lovink, olandese, uno dei principali teorici dei media contemporanei. Un’occasione per discutere sulle tante questioni aperte della cultura delle reti e del suo impatto su politica, economia e la società. La tesi più scottante di Lovink è che dobbiamo dimenticare i media quando si parla di Internet. La rete non riguarda solo la comunicazione, ma tutta la società: dalla salute, all’organizzazione della conoscenza, dalla logistica alle infrastrutture, alle valutazioni sul clima, sebbene la sua influenza resti in larga misura invisibile.

Lovink, che nei giorni scorsi ha tenuto due seminari alla terza università di Roma, è sicuramente uno dei media theorist che con continuità ha accompagnato lo sviluppo della rete e della network culture, ha analizzato nel corso tempo il ruolo sempre più pervasivo di Internet nella comunicazione e nelle attività produttive, focalizzando la sua attenzione sul fatto che il web è stato ed è tutt’ora un laboratorio dove sono state sperimentati modelli organizzativi del capitalismo contemporaneo, ma anche il contesto dove l’attivismo dei movimenti sociali ha dato forma a inediti dispositivi di contestazione dell’informazione mainstream e di produzione di informazione «alternativa», mettendone comunque in evidenza limiti e ambivalenze. Testimoni di questo lungo percorso teorico sono i molti volumi pubblicati, molti dei quali tradotti in Italia. Nei prossimi mesi è annunciata l’uscita di L’abisso dei social media.

Partiamo dal conflitto tra Apple e la Fbi, dopo la richiesta da parte di quest’ultima di un software per aggirare i sistemi di protezione di un iPhone. Con la determinazione di un mediattivista, Tim Cook ha respinto sdegnato la richiesta della Fbi, in nome del diritto inalienabile e universale alla privacy. Con lui, quasi tutte le imprese che contano in Rete. Che pensi del fatto che Google, Facebook, Amazon si elevano a custodi della privacy dopo che hanno collaborato per anni nelle tecnologie della sorveglianze in Rete?

Dobbiamo ringraziare Julian Assange, Anonymous, Edward Snowden e le migliaia di attivisti dei cyberdiritti meno noti che hanno reso visibili gli intricati rapporti tra Nsa e le stacks (i silos di processori dei computer impilati), come Bruce Sterling chiama le grandi aziende americane dell’information technology e di Internet. Apple ora si oppone anche a causa della massiccia pressione della società negli ultimi decenni.
Le persone tengono alla propria privacy e hanno rotto il contratto sociale con la Silicon Valley che stabiliva che gli utenti ottenessero servizi gratuiti in cambio dei loro dati personali. Non siamo più nella società spensierata del 2007: fin qui tutto bene. Dobbiamo discutere sul perché la protesta si attivi tanto lentamente. Perché è così difficile per noi cambiare passo? Ogni cosa si velocizza tranne la nostra resistenza.
Viviamo nel regime del tempo reale. Comunichiamo simultaneamente con chiunque da un capo all’altro della terra, di fatto a costo zero. Un meme si diffonde alla velocità della luce. Perché i movimenti sociali invece ci mettono tanto? È la domanda dell’«accelerazionismo», che resta cruciale per me. Abbiamo bisogno di lasciar da parte condivisione e reattività e progettare nuove forme di organizzazione che non siano solo decentrate, inclusive e democratiche, ma che siano capaci di tenere il passo della velocità: da una rete discorsiva a una di coordinamento. Questa è la dimensione politica della svolta logistica negli studi umanistici (da Keller Easterling, a Alan Liu, a John Durham Peters a molti altri). Lo spostamento va oltre la classica domanda «cosa si deve fare». Per esempio, siamo a tre anni dal caso Snowden e solo 1% dei suoi documenti è diventato disponibile e di dominio pubblico. Il problema è che l’orologio interno al nostro corpo non si è ancora assestato sul potenziale del tempo reale delle reti di computer.

A partire dall’agosto 2012 Assange è costretto a nascondersi tra le mura dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È un personaggio controverso, ma il fondatore di Wikileaks è anche una personalità che ha reso affascinante l’attitudine hacker che vuole l’informazione libera. Puoi spiegare, però, la dialettica tra l’eco globale di Wikileaks e la tendenza a controllare tutte le attività di comunicazione messa in campo da governi e imprese?

Sono uno dei pochi critici di Assange che arriva proprio dalla sua stessa cerchia. È importante sostenere la sua causa e partecipare al lavoro investigativo sulle migliaia, se non milioni di documenti che Wikileaks e altri come Cryptome hanno reso pubblici finora. Tuttavia non condivido il suo approccio alla celebrità e la visione cospirativa del mondo. A paragone delle Ong e dei movimenti sociali in giro per il mondo, l’etica del lavoro di Assange è stata disastrosa. Ci sono molti elementi della cultura hacker che dobbiamo criticare e respingere apertamente. Dovremmo, ad esempio, chiedere a Assange di smettere di autoproclamarsi «direttore» (come se stesse gestendo un’azienda di comunicazione) e accettare che i suoi sostenitori lavorino in strutture collettive.
Per tornare alla domanda, quando si discute di trasparenza radicale, sostengo completamente Assange. Teorici conservatori in Germania (Byung-Chul Han) e in Olanda (Paul Frissen) considerano equivalenti la trasparenza della Nsa e quella di Wikileaks. Non sono d’accordo con loro. Molti hacker sono attenti e precisi su quello che rendono pubblico. Oppure pensiamo al Democracy in Europe Mouvement, il cui leader Yannis Varoufakis ha cominciato con la richiesta di aprire gli incontri dell’Eurogruppo. Si tratta di domande specifiche che non sono riducibili al tipo di richiesta cinica che «ogni cosa deve essere trasparente».

Nella «network culture» era scontato che la rete non ammettesse confini. Ora assistiamo a una sua «balcanizzazione». I confini vengono ristabiliti. Siamo forse di fronte al tramonto dell’idea che la rete sia un medium globale? Oppure stiamo assistendo a una riorganizzazione delle gerarchie economiche, politiche e sociali?

Le reti non sono solo infrastrutture o protocolli, sono forme organizzative e danno forma alla struttura sociale. Almeno, fino a poco tempo fa. Nel mio ultimo libro – che uscirà in Italia a maggio per Egea, L’abisso dei social media – affermo, con molti altri, che la forma dominante attualmente non è la società delle reti di Castells, ma il capitalismo delle piattaforme. Le reti esistono, ma sono sotto-strutture che funzionano dentro il capitalismo delle piattaforme e non hanno autonomia. Ci sono anche le protezioni geopolitiche, i walled garden di Facebook e del firewall cinese. Ma sono convinto che il dominio sulle nostre reti non dipenda da una loro frammentazione, ma da un incredibile processo di centralizzazione del software e delle infrastrutture.

In anni recenti, per molti attivisti e teorici «condivisione» era la parola magica da usare per definire una possibile alternativa al capitalismo. Una sorta di fuoriuscita dall’economia di mercato attraverso lo sviluppo d’imprese, cooperative, reti di imprese basate sulla partecipazione e su una logica non capitalista. Adesso invece la sharing economy è indicata come la salvezza del capitalismo. Cosa ne pensi?

In prima battuta direi che si tratta di un classico caso di appropriazione capitalistica. Per me condividere è qualcosa di speciale, è un regalo, collegato a un rito. Condividere non è qualcosa di automatico e freddo. È precisamente l’opposto delle transazioni del business. Non ho mai capito cosa stessero condividendo Uber o Airbnb (certamente non ricavi e perdite). Il problema c’è stato perché abbiamo sottovalutato il ruolo dei nuovi intermediari: l’ideologia di Internet enfatizzava la distruzione dei vecchi, ma non ha discusso dei nuovi. Evgeny Morozov e altri recentemente hanno enfatizzato a questo proposito il concetto di «estrazione di una rendita» (il Guardian, 31 /1/2016).

La «sharing economy» eleva a norma il legame tra innovazione e precarietà nel rapporto di lavoro. L’innovazione deve trovare canali di finanziamento sia dentro lo stato, sia al di fuori (venture capital, crowdfunding e crowdsourcing). La precarietà è, però, la regola. Come rompere questo legame che toglie valore al lavoro – cognitivo o manuale – e funzionalizza la ricerca solo al profitto in una stretta logica economica di successo a breve termine?

Costruendo beni comuni. Dobbiamo elaborare iniziative collettive nelle quali riaffermare il carattere pubblico di alcuni elementi cruciali della cittadinanza: salute pubblica, biblioteche pubbliche, parchi e spiagge pubbliche, scuole e università pubbliche. Nello stesso tempo andare all’offensiva come quando protestiamo contro la privatizzazione delle infrastrutture pubbliche. Chiedere una moratoria della vendita delle case popolari pubbliche, aprire un dibattito con Airbnb nella propria zona, condividere nuove forme di impegno civile (ibrido) a livello locale. Questo include anche riprendersi Internet come bene pubblico.

La tua riflessione ha evidenziato una saldatura tra network culture e uso politico della Rete. L’uso politico della rete sia ormai un fatto acquisito. Eppure il magmatico accumulo di esperienze di movimento non produce un accumulo di potere. Come leggi questa diffusione virale di mediattivismo, spesso caratterizzato da un ciclo di vita breve senza cioè continuità politica?

Le reti tendono a decostruire il potere e, lentamente ma stabilmente, attivano tendenze di centralizzazione. Questo è il loro reale anarchismo che nessuno nota. David Graeber lo abbraccia, mentre un leninista come Slavoj Žižek lo mette in discussione. Nel mio lavoro ho cercato di dare a questo dibattito secolare una fondazione tecnologica. Dobbiamo comprendere che i computer sono macchine. Non c’è modo di delegare loro il lavoro duro dell’organizzazione degli esseri umani. Ci salva solo l’«Evento». Con la maiuscola. L’evento crea legami forti. Fa’ cose. Mette insieme e ci impegna all’atto di bellezza.

Com’è possibile combattere il risentimento nei social network, mantenendo intatto lo spirito critico necessario a spiegare le conseguenze politiche del capitalismo delle piattaforme?

Praticando l’arte della metamorfosi. Dobbiamo reinventare noi stessi ogni tanto e non restare ancorati alle posizioni consuete. Come possiamo smantellare il risentimento? Questa è la grande sfida dei nostri tempi per l’Europa e l’Occidente. Non basta insistere sul politically correct. Abbiamo bisogno di creare nuovi incontri. Sono consapevole che si tratta di una mossa cristiana. Forse i computer sono macchine cristiane. Umberto Eco aveva ragione a proporre la distinzione tra Mac come computer cattolico e Microsoft come interfaccia protestante. Ma tutt’e due sono sistemi operativi cristiani. Le reti collegano, creano una comunità. Enfatizziamolo in questi tempi disperatamente nichilisti.