Ora che c’è anche la magistratura a scoperchiare il sistema di appalti e subappalti Fincantieri che sfrutta il lavoro degli immigranti del Bangladesh e ingrassa le tasche di dirigenti, forse qualcosa cambierà. Ma la prima reazione del gigante della cantieristica – pubblico al 70 per cento – non lascia ben sperare.
La procura di Venezia – su più denunce – ha messo sotto indagine ben 12 importanti dirigenti della società guidata da quasi 20 anni dall’inossidabile Giuseppe Bono, ultimo boiardo di stato amico di tutti i governi, indipendentemente dal colore. Una inchiesta che ha portato a 80 perquisizioni in mezza Italia, partita dal cantiere di Marghera per allargarsi a Monfalcone coinvolgendo anche Liguria, Sicilia, Campania e Marche. Un sistema di tangenti a tre livelli con cui le imprese in appalto pagavano i manager per poter lavorare in Fincantieri come fornitori, nelle commesse e – la più grave – per appalti sotto costo a cui i dirigenti, attraverso i Documenti di coordinamento delle modifiche (Dcm), concedevano più ore di lavoro alle imprese che li «remuneravano» con soldi o regali. Tra i dirigenti indagati ci sono pezzi da novanta di Fincantieri come Carlo De Marco, al tempo direttore generale di Marghera e ora responsabile della divisione mercantile (cruise), Paolo Reatti ora coordinatore degli acquisti, e Vito Cardella, ora in Fincantieri Infrastructure, l’azienda che sta costruendo il nuovo ponte di Genova. Assieme ai responsabili delle aziende in appalto – alcuni bengalesi – i reati contestati sono corruzione, fatture false e sfruttamento del lavoro. Arresti domiciliari per il bengalese Mohammad Shafique, a capo di due ditte di Mestre, la Gazi e la Cnb Srl, e un sequestro di 200mila euro, soldi che secondo l’accusa sarebbero stati sottratti ai lavoratori.
Ci guadagnavano tutti, infatti. Tutti tranne gli operai del Bangladesh, pagati a 5 euro l’ora con buste false che spesso dovevano anche ridare soldi in contanti in cambio di un salario da fame. La miriade di aziende in appalto e subappalto sono il vero modello Fincantieri se è vero che l’azienda ha 7.800 dipendenti diretti mentre nei suoi cantieri entrano circa 26mila lavoratori di ditte esterne per un rapporto di 1 a 3 se non 1 a 4: in pratica il 70% di chi entra non è un dipendente Fincantieri.
Ed è proprio il sistema Fincantieri ad essere ora sotto accusa. «Denunciavamo queste pratiche da tempo, soprattutto a Monfalcone dove alcuni lavoratori del Bangladesh hanno avuto il coraggio di rivolgersi alla magistratura. Se tu basi il tuo successo sull’esternalizzazione iper spinta è chiaro che generi questo tipo di problemi. Se dai in appalto anche attività di core business di cantieristica e attività di scafo come la verniciatura e impianti è normale che ci siano aziende che facciano di tutto pur di poter entrare nel sistema», denuncia Roberto D’Andrea, coordinatore nazionale Fincantieri per la Fiom.
Tutto parte dal mancato rispetto del contratto nazionale. «Noi più volte abbiamo ci siamo appellati alla responsabilità sociale dell’impresa Fincantieri ma i vertici si sono rifiutati perfino di farci conoscere le “timbrature” delle ditte d’appalto che ci permetterebbero di sapere quanti sono e quanto lavorano i loro dipendenti», denuncia D’Andrea.
La risposta di Fincantieri all’inchiesta difende il sistema attuale. «La società rivendica la propria estraneità – si legge in una nota – è impegnata in attività di verifica che accompagnano tutto il ciclo della commessa nel sistema degli appalti e vigila sul puntuale adempimento di quanto spetta al personale dipendente». Cinque euro all’ora. Ma va bene così.