Un’«Internazionale liberale»: è quella che emerge dal libro di Francesca Sofia, Histoire de la correspondance de Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (ed. Slatkine, Ginevra, pp. 891, 65 franchi svizzeri, euro 59,00), come una struttura politica e culturale decisamente nuova. Si conoscevano naturalmente l’Internazionale Socialista e quella Comunista, dell’Otto e Novecento. Si sapeva anche abbastanza di quella cattolica (si vedano ora i libri di Ignazio Veca).

Ma non quella «liberale», che la docente di storia all’Università di Bologna, Francesca Sofia, fa emergere dalla raccolta di tutte le lettere da lei identificate in questo libro, scritte e ricevute dall’intellettuale ginevrino Sismondi nel corso di quasi cinquant’anni (1793-1842, quando morì): non era una corrispondenza del tutto nota, soprattutto non era conosciuta in questo modo approfondito.

Si pensi solo al numero di libri, saggi, articoli che Sismondi pubblicò e che divennero fondamentali per la storia dell’economia politica ed economica; ma anche per la storia vera e propria (per esempio della caduta dell’impero romano, delle Repubbliche italiane, della Francia), per la storia della letteratura (soprattutto francese), della vita politica (in Europa, ma anche negli Stati Uniti), della censura; suo fu persino un romanzo storico (un po’ più debole di quelli di Walter Scott), Giulia Severa, sul 400 d.C. in Gallia. Tutti tradotti in molte lingue, noti e discussi da migliaia di persone e in giornali di tutto il mondo.

Francesca Sofia ha inventariato le lettere contenute nel fondo Sismondi di Pescia in provincia di Pistoia (la villa in campagna dove per anni visse l’intellettuale, adesso di proprietà del Comune), e indirizzate a Sismondi (ben 4757); quelle non identificate a Pescia (136); le sue risposte (2445), conservate in un numero vastissimo di archivi pubblici e privati.

E poi ci sono quelle, in andata e ritorno, di cui si stabilisce indirettamente la data o il destinatario, ma che non si conoscono con precisione. Un numero enorme, su cui Francesca Sofia ha lavorato una ventina di anni per capirne collocazione e testi, tutto spiegato in una ricchissima introduzione.

Alla fin fine, che cosa fu e che effetti ebbe quell’«internazionale liberale», quel rapporto strettissimo di Sismondi con tanti intellettuali europei, Benjamin Constant, Madame de Staël, perfino il generale Lafayette e Disraeli? molti italiani, ma soprattutto francesi, inglesi, tedeschi e americani; e a partire dall’epoca napoleonica fino all’avvio dei moti rivoluzionari culminati poi nel 1848.

Innanzi tutto va posta in luce la specifica strutturazione delle reti epistolari. Rispetto alla precedente République des lettres, essenzialmente elitaria, nei primi anni dell’Ottocento gli scambi epistolari che circolano tra gli intellettuali europei ristrutturano lo spazio politico a profitto di un nuovo campo d’azione dove prende corpo, contro ogni tipo di censura, un’opinione pubblica molto più vasta, che non si ha difficoltà a definire pressoché mondiale (nel caso di Sismondi s’irradia dall’America latina all’India). Non si tratta più di uno scambio bipolare, o di un personaggio che si fa centro della propria rete di corrispondenti, dove tutto converge: come la straordinaria corrispondenza di Erasmo nei primi anni del Cinquecento. Per i primi anni dell’Ottocento sarebbe meglio parlare di costellazioni d’individui che sembrano formare piuttosto dei cerchi concentrici, polarizzati su alcune vitali città europee (Parigi, Londra, Ginevra). I moti e le rivoluzioni tentate o riuscite creano una forte mobilità e provocano reti vaste, e talmente intersecate l’una con l’altra, che si ha quasi l’impressione che tutte le comparse ne siano partecipi. È la funzione che a mio avviso svolge l’«internazionale liberale»: di attuare una sostanziale acculturazione politica transnazionale, paradossalmente negli stessi anni nei quali si stava imponendo il modello dello Stato-nazione; poi naturalmente l’«internazionale liberale» svolgeva anche opera di assistenza reciproca (una sorta di «Soccorso rosso» ante litteram).

La si può definire davvero una lotta politica contro i pregiudizi? Ma quale successo ebbe?

È una lotta politica contro l’oscurantismo, politico e culturale, che sembrava calato sul mondo all’indomani della sconfitta di Napoleone. Proprio rispetto a questo contesto, si può parlare di una «internazionale liberale» perché costringe le diverse famiglie politiche all’opposizione ad agire compatte, mettendo tra parentesi le proprie particolari aspirazioni progettuali. I successi ci furono, ma avvantaggiarono solo una parte: si pensi per esempio alle Gloriose Giornate del luglio 1830 a Parigi, che si conclusero con la vittoria dei dottrinari; o alla riforma elettorale inglese del 1832 che lasciò inevase le richieste dei radicali.

Per Sismondi un pezzo di potere della futura democrazia andava comunque confermato all’aristocrazia (vedi il testo del 1834, citato a p. 106 del libro). Fu un suo limite o una sua forza?

Un limite sicuramente, se collochiamo la sua riflessione negli anni in cui vide la luce. Sono gli anni in cui venne a maturazione un genuino credo democratico (si pensi per quanto riguarda l’Italia a Mazzini, che in un breve torno di tempo diventò l’alter ego di Sismondi). Tuttavia oggi la sua intenzione di congiungere alla partecipazione popolare l’elemento «aristocratico» – inteso da Sismondi nel suo significato etimologico, come apporto dei migliori alla cosa pubblica, senza pregiudizio di ceto – può essere letta come esigenza di garantire l’esistenza di una classe dirigente all’altezza del suo compito. Per Sismondi, per esempio, non erano tali i governi della «Monarchia di Luglio» di Luigi Filippo, successiva alla rivoluzione del 1830, e che soppressero nel sangue le rivolte dei canuts di Lione, gli operai tessili che si ribellarono nel 1831: eppure era la legittima aspirazione alla partecipazione politica, senza la quale il governo si riduceva a una pura e semplice aristocrazia. Il modello che Sismondi aveva in mente era quello vigente a suo tempo a Ginevra, dove le élite erano legittimate dal voto dei contadi, e attuavano una forma embrionale di «centralismo democratico».

C’è la figura di Fanny Wright, giovane intellettuale scozzese, conosciuta nel 1824 a Parigi e che divenne negli Stati Uniti un «caso» politico: discusse dello schiavismo dei neri (come Sismondi) e tentò perfino un esperimento cooperativo sulla base dell’utopia di Robert Owen. Fu sconfitta. Ma quanto contò l’intellettuale ginevrino?

A parere di Wright, il pensiero economico di Sismondi aveva rappresentato una stella polare. In una lettera del 1828, al termine del suo esperimento cooperativo a Nashoba, nel Tennessee, gli scrisse che nessuno al pari di lui si era impegnato nel legittimare quanto lei aveva cercato di attuare. Ciò che univa i due intellettuali era l’originaria formazione repubblicana, l’unica a parere di entrambi in grado di coniugare benessere materiale e virtù civiche. Tuttavia, quando Wright accentuò i toni radicali del proprio attivismo politico, intervenendo – prima donna nella storia a tenere pubbliche conferenze sul continente americano – a favore dei diritti delle donne, del libero pensiero, per il controllo delle nascite e per l’affermazione di una società multirazziale, i loro rapporti si raffreddarono parecchio, anche se rimase latente la stima reciproca.

Dall’altra parte il caso Cavour. Il futuro capo del governo piemontese e poi italiano incontrò Sismondi a Ginevra nel 1835. Lei segnala (a p. 110) un giudizio di Cavour: lo riteneva «di sentimenti nobili, di stile piacevole, manca di una potenza logica e di forza argomentativa».

È necessario contestualizzare quest’affermazione di Cavour. Sismondi lo aveva accompagnato ad assistere a una lezione all’Académie del liberista Antoine Cherbuliez, durante la quale questi si era soffermato sulle teorie di Malthus confutando «le deboli obiezioni di Sismondi». All’altrettanto liberista Cavour la probabile replica di Sismondi non dovette apparire del tutto convincente, come non era apparsa alla maggioranza degli economisti dell’epoca.

Con Marx ed Engels e col Manifesto del 1848 siamo sei anni dopo la morte di Sismondi. Con lui il Manifesto fu pesante perché considerò il suo un «socialismo piccolo-borghese»: positivo per quanto riguardava l’analisi dei mezzi di produzione e della proprietà fondiaria, ma «reazionario e utopistico» per l’evoluzione (o meglio, involuzione) politica e ideologica che imponeva proprio a proposito dei mezzi di produzione e della proprietà. È stata la distruzione del ruolo di questo intellettuale?

L’accoglienza della dottrina economica di Sismondi non è mai stata vasta e ha ricevuto più confutazioni che applausi, come abbiamo visto nel caso di Cavour e di Cherbuliez. La menzione di Sismondi all’interno del Manifesto e l’adesione di Marx alla pars destruens della sua analisi, piuttosto che affossarlo in maniera definitiva, ha invece col tempo portato gli storici ad approfondire i debiti di Marx nei confronti del ginevrino. A partire dal libro di Henryk Grossmann, Sismondi e la critica del capitalismo, pubblicato nel 1924 e tradotto in italiano nel 1972, la dottrina economica di Sismondi è stata intesa come l’anello mancante tra gli schemi teorici del fisiocratico Quesnay e quelli elaborati da Marx nel secondo libro del Capitale. Oggi la maggior parte degli studiosi che si interessano alla dottrina economica di Sismondi cerca di approfondire questo controverso rapporto.

Una completa biografia di Sismondi è ora possibile. Ci sta pensando? La farà?

Con questa ricognizione della sua corrispondenza ho cercato di attirare l’attenzione sul ruolo politico svolto da Sismondi, un aspetto del tutto trascurato dalla storiografia. A partire da questo apporto, sarebbe senza dubbio necessario rivisitare i suoi scritti storici ed economici per cogliere le probabili interconnessioni con la sua appassionata militanza. Non so se sarò io a farla, ma si tratterebbe comunque di una biografia diversa da quelle finora conosciute.