Oggi le migrazioni costituiscono il paesaggio mobile e mutevole della nostra epoca. La più grande crisi di rifugiati dopo la seconda guerra mondiale si accompagna a un numero impressionante di immagini. Di fronte alla potenza delle immagini si resta spesso ammutoliti. Sono luminose, inconfutabili. Sembrano già dire tutto quello che c’è da dire e permetterci di accedere a una trasparenza delle cose, che ci è di sollievo. Perciò davanti a loro spesso la voce si arresta. Si sente di troppo. I suoi lunghi giri appaiono di colpo terribilmente antiquati. Cosa potrebbe aggiungere a quanto è stato già mostrato? Del resto, anche quando si cercano le parole giuste per dire qualcosa, ci si accorge che esse mancano. Sono discutibili, problematiche. Anche quando pare di averle trovate, non sappiamo bene per cosa siano o cosa cerchino di dirci. Sembrano già da sole sufficienti a raccontare, ali limite smobilitando le parole, che non di rado appaiono sclerotizzate o trasformate in stereotipi e docilmente finiscono per alimentare il chiacchiericcio soporifero del cosiddetto dibattito pubblico.

COSTRETTI A RISCRIVERE il proprio lessico, noi parlanti sembriamo reagire con una rigidità ancora maggiore: investiti da una marea di differenze, si rispolvera l’armamentario delle identità e dell’appartenenza, delle parole d’ordine o di uno slang che chiude qualsiasi confronto (un esempio su tutti: la deriva mortificante prodotta da una parola come «clandestinità», introdotta legislativamente e che ha finito per alimentare la percezione dei migranti come «clandestini»). È allora che le nostre parole appaiono essere prima di tutto dei sintomi. Come sintomi registrano ciò che di più profondo ci accade.

Basterebbe già solo questo per accogliere con interesse l’uscita del Piccolo lessico del Grande Esodo (minimum fax, pp. 296, euro 15), curato da Fabrice Olivier Dubosc e Nijmi Edres. La loro impresa è quella di riuscire a riarticolare in 80 lemmi il linguaggio abitualmente utilizzato per le migrazioni. Si tratta di testi che affrontano in massimo tre pagine temi immensi come cittadinanza, identità, razzismo… Con senso della misura e con una finezza che non possiamo salutare che come risultato felice di un lavoro che presumiamo lungo e complesso, una simile riflessione sulle parole è vitale, non ha niente di pedante. La forza della sua operazione risiede nella capacità di smarcarsi dall’universalità asettica che è propria delle asserzioni del sapere, per emergere dalla singolarità delle storie che la compongono.

SPOSTARE L’ATTENZIONE dalla spiegazione presunta del mondo e di ciò che accade alle parole che usiamo, permette di cogliere qualcosa della «crisi migrante». Il linguaggio diviene qui il sismografo dello spostamento che tale crisi produce in noi. Da soggetti di sapere ci scopriamo parlanti che si interrogano sul senso e sugli effetti della loro epoca.

In questo senso il «Grande Esodo» del titolo è quanto permette di interrogare le forme di vita occidentali. In gioco è la vocazione politica dell’Europa. Su cosa e per cosa si deciderà nei prossimi anni? Saremo in grado di arrestare e di rovesciare la deriva razzista presso le giovani generazioni? Sarà in grado il continente europeo di ascoltare la propria storia e di inventare nuove forme di convivenza e di lavoro? Oppure si continuerà nell’incapacità o non volontà di affrontare la questione dei paradigmi dominanti, che sembra solo aumentare il senso diffuso di instabilità?

«PENSARE LA COMPLESSITÀ e il conflitto in termini generativi» significa allora interrogarsi sulle trasformazioni in atto, per assumerle al di là dell’opzione irrealistica, per cui si tratterebbe di fermare i flussi migratori, di arrestarli sulla costa meridionale del Mediterraneo, magari a prezzo di assurdi trattati con i potentati dittatoriali di regioni delegittimate politicamente dalla lunga stagione del colonialismo e dai suoi duraturi effetti. Occorre in un certo senso salvare l’Europa dalla povertà delle sue «misure». Ma non c’è solo l’aggressiva difesa dei confini territoriali.

NELLA COLPEVOLE riduzione dei migranti a «vittime», la stessa retorica umanitaria sui «poveretti» ne cancella l’aspirazione a essere, a un sovrappiù di vita. Li priva della parola, annullando a priori la possibilità di un incontro. Fa della loro presenza una semplice questione di gestione assistenziale, ne fa delle vite subalterne o dei traumi ambulanti. Senza singolarità e senza storia. Come non potessero avere niente da dirci.

Occorre salvare l’Europa da questa povertà del suo dibattito interno, che sembra riprodursi ovunque i migranti divengano capri espiatori per un malessere di lunga data. Essere europei oggi significa forse farsi portatori di un’inedita «immaginazione etica». Come un’apolide di nome Hannah Arendt sapeva bene, «i rifugiati sono l’avanguardia dei loro popoli». Sono l’avanguardia di una politica a venire, i cui segni è urgente che incominciamo a decifrare sin da adesso.