Prima uno spintone inatteso, il segnale premonitore del sussulto della terra sotto i piedi. Poi i colpi interminabili, le pareti che scricchiolano, i mobili in picchiata e i palazzi che s’inclinano in un minuto che dura una vita. Il fiato se ne va insieme all’equilibrio mentre si prova a scendere le scale immersi in un frastuono. È l’inizio del terremoto.

Città del Messico, gli stati di Puebla, Morelos, Tlaxcala, Guerrero e la cintura urbana intorno alla capitale, l’Estado de México, sono stati colpiti da un violento sisma di 7,1 gradi Richter con epicentro a Axochiapan, a 120 km dalla capitale. La terra ha tremato alle 13:15 del 19 settembre, esattamente 32 anni dopo il terremoto che distrusse la città nel 1985 e fece 10mila morti.

SOLO DUE ORE PRIMA era stata realizzata un’esercitazione preventiva in memoria di quella tragedia. L’otto settembre scorso il terremoto di 8,1 gradi che ha fatto 98 vittime e un migliaio di feriti negli stati meridionali del Chiapas e Oaxaca era stato avvertito anche nel centro del paese, nessuno se ne aspettava un altro così potente a distanza di poco tempo.

Secondo il rapporto diffuso da Luis Puentes, coordinatore della Protezione Civile, le vittime sono 225: 94 nella capitale, 71 nel Morelos, 43 nel Puebla, 12 nell’Estado de México, 4 nel Guerrero e una nel Oaxaca. Si tratta di cifre preliminari, in costante aggiornamento. Le stime della stampa locale prevedono che la cifra raggiunga il migliaio.

«Tutto il Messico condivide il vostro dolore, #ForzaMessico», ha scritto il presidente Enrique Peña Nieto su twitter decretando tre giorni di lutto nazionale in onore alle vittime e lo stato di «emergenza straordinaria». Le compagnie telefoniche hanno liberato chiamate, wi-fi e messaggi e gli ospedali sono stati aperti anche ai non assicurati. Le scuole resteranno chiuse in 9 stati.

NEL MORELOS sono 10mila gli edifici danneggiati mentre nella capitale si riportano 45 immobili crollati e ancora si scava tra le macerie per trovare persone vive. I Topos di Tlatelolco, il gruppo d’intervento immediato di soccorritori creato dopo l’85, è subito intervenuto nelle zone più devastate, cioè il centro storico, la Roma e la Condesa, che sono costruite su un terreno instabile su un antico lago interrato, e anche nel sud della città, più vicine all’epicentro, nei quartieri di Coyoacan e Coapa.

COME NEL 1985 la gente s’è riversata per le strade, dapprima per scappare ma poi per aiutare, organizzandosi con le reti sociali: si sono formate spontaneamente brigate di volontari e soccorritori per scavare mentre ciclisti e motociclisti facevano la spola tra i palazzi crollati. Ore dopo sono arrivate anche le autorità che hanno cominciato a realizzare opere di coordinamento degli aiuti e di messa in sicurezza di alcune aree pericolose. Ora sono oltre 8mila i militari impegnati nelle operazioni.

«Le prime 72 ore sono fondamentali, stiamo raccogliendo acqua, viveri, pale, torce, medicine, generatori elettrici per l’illuminazione e ne arrivano molti, ma raccomandiamo di continuare ad aiutare ma senza esagerare per non creare colli di bottiglia, siamo solo all’inizio, purtroppo», spiega, dal vivo con la giornalista Carmen Aristegui, la produttrice e scrittrice Kirén Miret che sta coordinando gli aiuti nel centro storico presso Casa Morgana. «A 24 ore dal terremoto non si richiede più solo la partecipazione e la solidarietà ma anche l’organizzazione, la logistica e le conoscenze necessarie per coordinare al meglio gli aiuti e le persone», ribadisce Aristegui.

TRA LE SITUAZIONI più delicate c’è anche quella di 21 bambini e 4 adulti che sono morti sotto le macerie della scuola primaria e secondaria «Enrique Rébsamen» nella zona Coapa, ma continuano le operazioni di soccorso dei Topos perché ci sono bambini vivi sotto le macerie che chiedono acqua e aiuto, una bimba è stata estratta ieri sera. E il Paese resta col fiato sospeso.

«Sul posto c’era il caos, migliaia di persone in giro ma non ancora la polizia o le istituzioni, c’era solo il pueblo, donne, uomini, vecchi e bambini», racconta Alessandro Peregalli, dottorando italiano che nel pomeriggio del terremoto ha prestato aiuto lì, tra le macerie della scuola. Le persone che rimuovono le macerie in chilometriche file umane fanno rumore e possono coprire i gemiti di chi resta intrappolato per cui si alzano le braccia per invitare al silenzio. «Quello che serviva di più era tagliare dei pali di legno per fare dei treppiedi che sorreggessero quel che restava della scuola mentre la protezione civile coi cani cercava nelle macerie, per cui abbiamo fatto una piccola squadra ma ogni tre per due partiva il grido “silenzio!” e s’alzava un coro di braccia in alto per non far rumore», spiega Peregalli.

RAPIDAMENTE si sono attivate varie brigate di ingegneri civili, architetti e periti di imprese private e università per monitorare l’agibilità degli edifici ovunque ve ne sia bisogno. «Un flusso ininterrotto di solidali, armate di guanti, zaini, pale e bottiglie d’acqua si sono ritrovate nello stadio dell’Università per formare brigate di soccorso», racconta il docente d’italiano Edoardo Mora, che ha preso parte a uno dei gruppi, «è stata una dimostrazione di solidarietà come non avevo mai visto prima».