Di giorno la vecchia Salaria sembra più viva che mai. Il sole batte sui lavori in corso, si vedono decine di automobili parcheggiati ai lati della strada, i turisti affollano i bar in attesa di muoversi a piedi verso le vette dei Sibillini. Di notte tutto si ferma, le strade si svuotano, le persone scompaiono, le luci delle casette appaiono fioche, non brillano. La temperatura scende e fa quasi freddo, mentre il profilo incombente del monte Vettore scompare nel buio.

Sono passati due anni dal 24 agosto del 2016. Era un mercoledì, alle 3 e 36 del mattino una scossa di terremoto da 6 gradi sulla scala Richter svegliò tutta l’Italia centrale e ridusse in polvere tre paesi a cavallo tra il Lazio e le Marche. 299 morti. Migliaia di sfollati spediti negli alberghi della costa adriatica ad aspettare un futuro che ancora oggi appare irraggiungibile.

I più sfortunati si sono riavvicinati a casa soltanto nelle ultime settimane, e le comunità di Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli sono ridotte al livello di villaggi vacanze permanenti: gli agglomerati di Sae (Soluzioni abitative d’emergenza) sono tutti uguali: blocchi color giallo spento sistemati a scacchiera con poco spazio in mezzo. Ad Arquata sono un po’ lungo la Salaria e un po’ nell’ex campo sportivo. Ad alzare gli occhi si vede quel che resta del paese vecchio: un cumulo di polvere che sembra sabbia, gli edifici sono stati tutti demoliti, la rocca è impacchettata, in restauro. Almeno qui si sta facendo qualcosa, basta salire verso le frazioni di Piedilama e di Pretare per dover fare slalom con la macchina tra le macerie ancora sulla carreggiata. Ci sono villaggi di Sae anche qui, affacciati letteralmente sul vuoto. Si tratta di paesi che si sviluppavano esclusivamente intorno a una strada che li tagliava a metà: adesso la via c’è ancora, ma intorno tutto è crollato, e qui le demolizioni non sono mai cominciate.

Ad Amatrice va un po’ meglio, anche se l’ex sindaco-tribuno Sergio Pirozzi è ormai preso dal consiglio regionale del Lazio e i riflettori non si accendono più. Il centro è isolato, fuori i turisti entrano ed escono dai ristoranti, ma di abitanti locali se ne vedono in effetti pochi.

A domandare nei bar se si sa qualcosa sull’inizio dei lavori di ricostruzione, le risposte sono sarcastiche: «Lo sa lei?». Già, perché in tutta l’area del cratere, su centomila edifici sui quali è necessario un intervento, i cantieri aperti sono appena qualche decina. Sono passati due anni, tre governi e, tra poco, anche tre commissari straordinari alla ricostruzione, eppure nessuno si è mai preoccupato davvero di offrire un futuro urbanistico a queste zone. A Genga, in provincia di Macerata, abita Leonardo Animali, un personaggio che davvero merita la definizione di «agitatore culturale». Leonardo si aggira nel cratere, passeggia, osserva, parla con le persone e in questi luoghi fantasma ci vive davvero. È lui ad aver coniato l’espressione di «strategia dell’abbandono», nel senso di consapevole politica di svuotamento di un Appennino in cui già prima del terremoto vivevano troppo poche persone, il cui peso economico è vicino allo zero e il cui valore elettorale è risibile, dunque poco appetibile per quella macchina di propaganda che è la politica di questi tempi.

L’idea di sviluppo che le istituzioni hanno per queste zone è legata al turismo: fare eventi per portare persone che dovrebbero consumare in modo da far ripartire l’economia. Sta funzionando così: mentre di case vere e proprie non ce n’è neppure l’ombra, continuano a sorgere villaggi commerciali per ristoranti e bar, si organizzano concerti faraonici – tipo quello recente di Jovanotti sul pratone dell’abbazia di Roti, ancora nel maceratese, con 70 mila persone accorse nel parco nazionale – ma chi arriva non ha alcuna intenzione di contribuire alla resurrezione del territorio, va soltanto a sentire un po’ di musica. Il barista di Matelica, il paese più vicino, nel giorno di Jovanotti, è molto chiaro in questo senso: «Non ho fatto più caffè del solito, oggi». Perché in paese non c’è passato nessuno.

Poco distante, a Fiastra, proprio ieri, è arrivato il finale di una storia molto cavalcata durante la campagna elettorale delle ultime politiche e poi scivolata nel dimenticatoio subito dopo. Peppina Fattori, la 95enne che si era costruita una casetta in mezzo al parco nazionale ed era stata mandata via, potrà tornare. La procura di Macerata ha dissequestrato il piccolo edificio di legno e ha messo un punto in fondo alla questione. È un evento a suo modo straordinario, perché nel cratere la lotta non è soltanto contro l’abbandono materiale e i fantasmi che si aggirano tra le macerie, c’è anche un apparato burocratico, che definire fumoso è poco, da fronteggiare: tantissimi non hanno idea di come districarsi tra pratiche e uffici. «Ci stanno prendendo per stanchezza», chiosa un terremotato di Pretare. «Presto o tardi ci stuferemo di lamentarci e di aspettare. E ce ne andremo. E di questi posti non rimarrà più nulla».