Le prossime elezioni presidenziali in Egitto si stanno trasformando sempre di più in un referendum pro o contro l’uomo che ha guidato il colpo di stato militare del 3 luglio scorso, il ministro della Difesa Abdel Fattah Sisi. E così prima che sia l’Alta commissione elettorale a invalidare senza appello i suoi rivali, uno a uno si chiamano fuori dalla competizione elettorale.

Dopo la defezione eccellente dell’ex consigliere di Morsi, Sami Annan, è stato l’attivista per i diritti dei lavoratori, Khaled Ali, unico candidato comunista nel giugno 2012, ad annunciare che non intende partecipare al voto. «Non parteciperò a questa farsa», ha detto Ali chiedendo ai militari di tenersi fuori dal confronto politico. A questo punto, Sisi resta l’unico candidato plausibile per le elezioni che per il presidente ad interim, Adly Mansour dovrebbero tenersi entro il 17 luglio, quindi ben oltre la data inizialmente stabilita di aprile. L’unico ancora in corsa, ma che ha espresso preoccupazione e presto potrebbe annunciare il ritiro, è il nasserista Hamdin Sabbahi.

La censura contro il movimento islamista, avviata dopo l’arresto dell’ex presidente Morsi, sta quindi coinvolgendo anche i movimenti politici laici. Non bastano gli arresti di blogger e attivisti rivoluzionari, ora sono movimenti e partiti a essere estromessi dalla partecipazione politica. Le libertà concesse alle parlamentari del 2011 sembrano quindi dimenticate in favore dell’uomo forte, il generale Sisi, che attende il sigillo «popolare» per chiudere la pagina del pluralismo politico, aperta nel dopo-Mubarak.

E così la polizia torna a controllare casa per casa gli stranieri che vivono in Egitto. Non solo, come ai tempi di Mubarak, chi posta su social network video o dichiarazioni che critichino l’esercito viene prelevato dalla Sicurezza di stato e portato in prigione senza accuse precise. Anche il solo riferimento alla rivoluzione del 25 gennaio 2011 inizia a essere stigmatizzato. Quel giorno viene ricordato dall’élite militare, come una cocente sconfitta, e per questo per molti è tornata ad essere la «festa della polizia» e non più la grande mobilitazione che ha costretto il vecchio rais alle dimissioni. Conta poco se, soprattutto i giovani, abbiano boicottato il referendum costituzionale, Sisi prosegue la sua «roadmap» a vele spiegate in nome della «stabilità». Eppure non può che far riflettere il destino dei giovani Tamarrod che hanno animato la campagna di raccolta firme per le dimissioni di Morsi, lo scorso 30 giugno. Uno dei leader del movimento, Mahmoud Badr ha barattato l’attivismo politico per un appartamento a Heliopolis e la candidatura alle prossime parlamentari. E alle critiche del comico Bassem Youssef che, tornato in tv dopo mesi di censura, ha descritto l’ascesa di Sisi come il «ritorno del dittatore» fanno da contraltare decine di manifestanti che, fuori dalla tv pubblica, brandiscono le foto dell’uomo che ama farsi chiamare il «nuovo Nasser».

Nonostante le censure, le violenze continuano. Nel quartiere popolare di Shubra al Kheima lo scorso sabato, un commando armato ha aperto il fuoco contro un posto di blocco dell’esercito, uccidendo sei soldati. Nel quartiere le gigantografie di Sisi tappezzano lo spazio pubblico. Il culto della personalità dell’uomo che si candida per «non voltare le spalle alla volontà della maggioranza» degli egiziani ha assunto proporzioni inattese. Ieri è arrivata però a sorpresa una sentenza che mette con le spalle al muro i poliziotti responsabili delle violenze contro gli islamisti. Il vice capo della polizia di Heliopolis, Amr Farouk è stato condannato a dieci anni dalla Corte del Cairo per la morte di 37 sostenitori della Fratellanza lo scorso agosto.