Decine di volte ho scritto, in saggi e articoli, contro i lager di Stato o, se l’espressione vi sembrasse eccessiva, dei Guantanamo italiani. Ma altra cosa è essere messa brutalmente di fronte alla loro realtà materiale e umana, alla loro concreta essenza concentrazionaria. All’orrore di lunghi, allucinanti corridoi di sbarre, dove i più camminano come fantasmi, qualcuno urla senza sosta la propria angoscia. All’agitazione contagiosa di persone, anche giovani, cui è stata inflitta la «doppia pena»: il lager dopo il carcere. Allo squallore di camerate prive d’ogni arredo e colore. Allo stanzino angusto e senza finestre, con un logoro materassino di gommapiuma, messo sul pavimento come giaciglio.
Qui, secondo la spiegazione dei nuovi gestori del Cie di Ponte Galeria, sono isolati certi «utenti» (è il loro lessico, da banalità del male), quelli che hanno bisogno di assistenza o sorveglianza «perché non si facciano del male». Qui ha trascorso la serata e la notte tra il 6 e il 7 febbraio un giovane internato, forse di nazionalità siriana, reduce da un intervento chirurgico per essersi tagliato, con una lametta, vene e tendini di un polso. Ha passato quella notte in compagnia delle forze dell’ordine, che non devono avergli riservato cure troppo amorevoli, né devono essersi commosse oltre misura ai suoi pianti e alla disperazione. Fatto sta che l’indomani mattina, polso e avambraccio erano talmente gonfi da richiedere una nuova visita in ospedale, alla quale seguirà, sembra, una seconda operazione.
Non prendo per oro colato ciò che dicono alcuni testimoni dall’interno del Cie, a proposito d’una presunta istigazione all’atto autolesionistico da parte d’un rappresentante delle forze dell’ordine. Ma non sarebbe troppo sorprendente: lo schema più consueto degli atti di autolesionismo compiuti nei lager per migranti (quello di Ponte Galeria ne ha una storia ragguardevole) contempla la provocazione di qualcuno «che sta sopra». Si consideri, inoltre, che lì agli internati è proibito tenere perfino penne e matite, meno che mai, evidentemente, lamette e altri oggetti affilati.
Lo ho potuto constatare di persona il 27 gennaio scorso, nel corso della visita in quel Cie, compiuta insieme con Gabriella Guido, di LasciateCIEentrare, Daniela Padoan, portavoce dell’eurodeputata Barbara Spinelli e altri. Sarebbe opportuno, dunque, che s’indagasse sulla dinamica che ha indotto un così giovane internato a tagliarsi le vene. Del pari, converrebbe verificare le voci numerose – d’internati ed ex internati – che dicono di una «squadretta» delle forze dell’ordine, talvolta accompagnata da cani (anch’essi vittime di quel sistema), pronta a intervenire con modi non troppo gentili nei confronti dei più agitati tra gli «utenti».
Quel venerdì mattina del 6 febbraio, la vista del giovane siriano che perdeva sangue copiosamente aveva scatenato una rivolta, con l’usuale corollario del rogo di materassi (saranno stati sostituiti con letti più decenti?). Rivolta effimera e vana: tutto sembra tornato come prima, se non fosse per l’attenzione da parte di alcuni rappresentanti della «società civile» e delle istituzioni (tra i quali, la già citata Spinelli). Le cui regolari visite e denunce, però, non sembrano incidere granché sulla struttura e sulla routine di quell’isola concentrazionaria, così come di altre simili.
Può accadere perfino che a visite di tal genere seguano atti illegittimi ai danni degli internati: ritorsioni o solo casuali coincidenze nefaste? Il giorno dopo la nostra, del 27 gennaio, il console nigeriano sarebbe entrato nel Cie per identificare diciannove suoi concittadini da rimpatriare. Il 29 gennaio i diciannove, compreso un giovane richiedente asilo in sciopero della fame e condizioni di salute assai precarie, sarebbero stati deportati in Nigeria con un charter dell’Agenzia Frontex: un caso di scandalosa violazione di direttive europee, della Carta dei diritti dell’Ue, dello stesso articolo 10 della nostra Costituzione.
Quanto alle condizioni del Cie, le cose sembrano perfino peggiorate dacché all’Auxilium, ente gestore fin dal 2010, dal 15 dicembre scorso è subentrata l’Associazione Acuarinto di Agrigento: facente parte di un raggruppamento d’imprese guidato dalla Gepsa, una SpA francese che si occupa di penitenziari, a sua volta filiale di Cofely, holding dell’energia, controllata dalla multinazionale Gdf-Suez.
L’appalto è stato ottenuto grazie alla drastica riduzione dei costi, del personale e dei servizi garantiti. Si immagini cosa voglia dire, in una situazione così esplosiva, la riduzione non solo di cibo, sigarette, tessere telefoniche, ma anche degli oggetti più elementari per il decoro personale e dei servizi di assistenza psicologica. Sempre più si ribelleranno, le nonpersone dette ipocritamente utenti, affermando così la pienezza della loro umanità.