Ogni rifugiato in quel cimitero che è il Mar Mediterraneo porta con sé una tragedia personale che è la tragedia di un popolo. Popoli in fuga da guerre globali, come l’iracheno e il siriano, smembrati da conflitti interni e interessi esterni che alimentano l’estremismo di matrice islamista.

Gli ultimi giorni hanno visto una nuova escalation di violenza e la conseguente fuga di migliaia di persone. A Fallujah la battaglia finale è prossima. Domenica il maggiore Thamir dell’esercito governativo annunciava la ripresa dell’80% dei territori intorno la città. Ieri è giunto l’atteso intervento delle unità di élite del controterrorismo iracheno (Cts), la cui presenza apre ad una nuova fase, la guerriglia urbana: sono entrati a Fallujah da tre direzioni, come annunciato dal portavoce del Cts. Gli fa eco al-Ameri, leader dell’organizzazione sciita Badr: «Non vi parlo di ore ma la ripresa di Fallujah avverrà molto presto».

Una vittoria cruciale sia sul piano strategico (dopo Ramadi, Fallujah lancia verso Mosul) che simbolico: la comunità sunnita simbolo della resistenza contro l’occupazione Usa è oggi, con tutta la provincia di Anbar, modello delle divisioni settarie e della discriminazione dei sunniti imposta dalle scellerate politiche statunitensi nel post-Saddam.

Per questo fondamentale sarà il destino dei civili intrappolati: dei 100mila che ancora risiedono nella città occupata dall’Isis nel 2014, almeno 50mila si trovano nelle zone roccaforti degli islamisti, scudi umani a cui viene fisicamente impedita la fuga. Solo 3mila persone sono riuscite a scappare attraverso il corridoio umanitario aperto da Baghdad e a raggiungere i campi del governo: chi arriva dopo 12 ore di cammino è stremato.

Come Nasra Najm e la sua famiglia: «Pensavamo che il riso non esistesse di più», dicono all’Afp di fronte al piatto che gli viene offerto. Nella Fallujah dell’Isis un pacco di riso era introvabile, il resto aveva prezzi proibitivi. Le organizzazioni umanitarie si aspettano flussi maggiori con l’imminente inizio degli scontri urbani. Per questo alcune milizie hanno prospettato una breve pausa prima dell’assalto finale per permettere a quanti più civili di mettersi in salvo.

Ma si combatte sotto altre forme anche a Baghdad: dopo un altro venerdì di proteste popolari, ieri la capitale è tornata target di attentati. Se l’ondata di attacchi delle scorse settimane (quasi 300 vittime) aveva riacceso la rabbia di sciiti, sadristi, classi povere, i 24 morti di ieri saranno benzina sul fuoco e giustificazione alle misure assunte dalle Brigate della Pace sadriste, il dispiegamento di unità armate a protezione dei civili: a rivendicare è lo Stato Islamico che ha colpito mercati nel quartiere sciita di Shaab, in quello di Sadr City (cuore del movimento sadrista) e nel villaggio di Tarmiyah a nord di Baghdad.

E se in Iraq l’Isis colpisce con bombe e kamikaze, in Siria avanza via terra. Mentre le Forze Democratiche Siriane – kurdi, assiri, turkmeni, arabi – proseguono nella controffensiva su Raqqa, “capitale” dello Stato Islamico, alle sue fasi iniziali, il “califfato” risponde a nord ovest: domenica migliaia di civili sono stati costretti a fuggire da Marea e Azaz, comunità al confine con la Turchia controllate dai kurdi di Rojava e attaccate dai miliziani islamisti. Almeno 29 persone sono state uccise, mentre altre 6mila si davano alla fuga. Tra loro soprattutto donne e bambini che hanno raggiunto altre aree della provincia di Aleppo, sempre sotto il controllo kurdo.

Nel mirino islamista c’è il nord di Aleppo e il rafforzamento della presenza tra le città strategiche di Afrin e Jarabulus, estremo confine settentrionale e punto di passaggio di armi e miliziani dalla frontiera turca, porosa e poco controllata dall’esercito turco. O meglio, porosa rispetto ai movimenti islamisti ma blindata alla fuga dei rifugiati a cui gendarmeria ed esercito turchi rispondono con pallottole, arresti, pestaggi.

E se secondo l’Onu sarebbero almeno 165mila i civili intrappolati tra Afrin e il confine, la diplomazia mondiale continua a tenere in un angolo la questione centrale dei profughi. Con il negoziato di Ginevra sospeso (non riprenderà prima di 2-3 settimane, ha detto l’inviato Onu Staffan de Mistura, che ha perso l’ottimismo che finora lo ha contraddisto), si sfalda il composito fronte delle opposizioni.

Ad andarsene è una delle figure più controverse della delegazione dell’Hnc, federazione dei gruppi anti-Assad creata da Arabia saudita e Turchia: Mohammed Alloush, leader di Jaysh al-Islam, milizia salafita che non disdegna alleanze militari con i qaedisti di al-Nusra, ha annunciato ieri le dimissioni a causa del fallimento del dialogo e il mancato rilascio dei prigionieri nelle carceri governative.