Oggi il presidente turco Erdogan sarà alla Casa bianca, una visita che nelle parole di Ankara è «nuova pietra miliare dei rapporti bilaterali». Di certo si parlerà di Siria: Erdogan non ha nascosto la rabbia per la decisione del presidente Usa Trump di armare le Ypg di Rojava in marcia verso Raqqa.

Fucili, mitragliatrici, blindati e bulldozer che agli occhi di Washington servono a spianare la strada verso la “capitale” dell’Isis, a quelli di Ankara ad attaccare l’esercito turco che dall’agosto scorso porta avanti l’operazione anti-Rojava.

Ma non si muore di sola Turchia. Ieri si è registrato l’ennesimo massacro da parte della coalizione a guida Usa: 23 civili sono stati uccisi alle 3 del mattino quando il palazzo in cui dormivano, nel villaggio di Abu Kamal vicino al confine con l’Iraq, è stato centrato da bombe statunitensi. Per la coalizione si trattava di un quartier generale islamista, per gli attivisti locali di un rifugio per sfollati siriani da Deir Ezzor e Raqqa.

Il giorno prima erano stati 12 i morti (tutte donne) in un altro raid aereo statunitense nel villaggio Akayrshi, a Raqqa.

Morti invisibili con il nord della Siria che è un enorme campo di battaglia: se le truppe governative si stanno spostando verso il confine con l’Iraq per impedire l’afflusso di miliziani Isis in fuga da Mosul, la più attiva è sempre la Turchia.

Dove non opera con le armi, agisce con i muri: dopo i 700 chilometri di barriera lungo Rojava, ora sta procedendo alla costruzione di un altro muro al confine con l’Iran, con Rohjilat. L’obiettivo, scrive l’agenzia kurda Anf, è de-kurdizzare il Bakur, separandolo dalle comunità nei paesi vicini.