Quindici villaggi della provincia sunnita di Anbar sono ricaduti in mano all’Isis, dopo una controffensiva messa in piedi dal tribù sunnite locali che li avevano precedentemente liberati. A farlo sapere è il capo tribale Sheikh Naeem al-Ku’oud, che aggiunge che 35 membri della tribù Albu Nimr, già target di brutali assassinii da parte islamista, sono stati catturati.

Mentre l’Iraq assiste impotente alla sua frammentazione, i grandi della terra continuano a discutere delle migliori strategie per frenare l’avanzata dell’Isis, finora affrontata solo con raid aerei e politiche che hanno incrementato volutamente i settarismi interni. Giovedì i membri democratici del comitato per le Relazioni Internazionali del Senato Usa hanno votato per l’estensione dell’autorizzazione all’uso della forza militare per altri tre anni a partire dal 2015 contro il terrorismo islamico.

Un’autorizzazione in vigore ormai da 12 anni, postumi dell’11 settembre, e che segue al via libera all’invio di altri 1.500 soldati Usa in Iraq, una luce verde che porta a oltre 4mila il numero degli attuali consiglieri militari statunitensi sul campo. Un numero ingente che da solo smentisce il mantra del «nessuno stivale sul terreno» di Obama.

Indirettamente agisce anche Bruxelles, che attua la sua personale no-fly zone sulla Siria imponendo sanzioni per evitare la vendita di carburante per jet militari a Damasco. Un modo per lasciare a terra i quasi 300 aerei da guerra siriani e evitare che bombardino le postazioni delle opposizioni alleate di Ue e Usa.

Perché la guerra in Siria, che il target sia l’Isis o meno, resta ancorata al conflitto tra Assad e ribelli. Su questo campo torna a muoversi Mosca che ha riallacciato i contatti con Washington per facilitare la ripresa del dialogo tra il presidente siriano e le opposizioni moderate, dopo i fallimenti preannunciati di Ginevra e Ginevra 2. Assad ha dato la benedizione agli sforzi della mediazione russa dopo un incontro con il vice ministro degli Esteri di Mosca Bogdanov.

Lo stesso Bogdanov, che pochi giorni prima aveva visto a Istanbul membri delle opposizioni siriane, ha detto alla stampa di «essere in contatto con il partner americano»: «Se i siriani vogliono incontrarsi a Mosca, discuteremo la questione con gli Usa. Abbiamo proposto ai siriani di venire per discutere delle possibilità politiche di risolvere la crisi».

Dagli Usa per ora non giungono commenti: la Casa Bianca vuole evitare qualsiasi forma di dialogo con il nemico Assad, considerato un elemento da eliminare nel processo di rimappatura del nuovo Medio Oriente. Una regione che in molti vorrebbero divisa definitivamente in due grandi macro-aree, una sunnita e una sciita, a radicalizzare i settarismi che negli ultimi anni hanno insanguinato ogni paese della regione.

La radicalizzazione si è concretizzata di nuovo ieri, quando una serie di esplosioni ha colpito la zona ovest della città sacra sciita di Karbala, in Iraq, meta in questi giorni del pellegrinaggio di 17 milioni di fedeli in occasione della festa dell’Arbaeen (in arabo “quaranta”, celebrazione della fine dei 40 giorni di lutto dopo l’anniversario della morte dell’Imam Hussein). La causa delle esplosioni nel quartiere di Souk al-Basra, sarebbero stati mortai o di razzi katyusha: una vittima e alcuni feriti.

Per la difesa delle linee rosse sciite – Karbala, Najaf, Samarra – il leader religioso Muqdata al-Sadr ha chiamato a raccolta le sue milizie, le Brigate della Pace, invocando mercoledì entro 48 ore l’inizio della jihad contro l’Isis che circonda la città di Samarra, per ora difesa da altri gruppi armati sciiti e esercito iracheno.

Resta al centro del conflitto anche Kobane, dove i combattimenti non cessano. Un nuovo video targato Isis mostra la città assediata dall’alto, immagini apparentemente girate da un drone, altro tentativo di propaganda multimediale del califfo al-Baghdadi.