L’araba fenice Erdogan ha vinto la scommessa. Si è giocato la testa sulla trita strategia della paura e ha avuto ragione.

Di certo un ruolo l’ha avuto il cosiddetto “fattore siriano”, parte integrante della campagna elettorale perenne: la Turchia ospita due milioni di profughi siriani, molti dei quali forza lavoro a basso costo nel mercato interno, a scapito di quella locale; è la sede delle opposizioni moderate, a partire dalla moribonda Coalizione Nazionale Siriana; è l’alleato Nato più vicino e il paese dal quale passano le armi inviate alle opposizioni da Golfo e Stati uniti.

E soprattutto è il paese che più sfacciatamente ha tentato di rovesciare il presidente Assad, sostenendo la crescita dei gruppi islamisti sunniti, a cominciare dallo Stato Islamico i cui miliziani attraversano il poroso confine con tanta facilità da sferrare attacchi in suolo siriano dalla frontiera nord.

L’Akp ha giocato sull’instabilità siriana, che ha aiutato a radicare, e attirato i voti degli indecisi con piccole campagne di arresti contro presunti miliziani Isis. Un falso nemico, che ha fatto però comodo associare al movimento di liberazione kurdo e al suo simbolo, il Pkk.

La vittoria del partito di Erdogan avrà effetti sul conflitto siriano e sugli equilibri internazionali. La possibilità, paventata dalle elezioni di giugno, di una coalizione allargata aveva fatto sperare in un ruolo più cauto. Ora Erdogan potrebbe tornare alla carica, forte di un esecutivo di maggioranza.

È difficile immaginare che l’esecutivo Akp opti per un ruolo defilato in quello che si prospetta come il periodo del negoziato internazionale sulla Siria, uscito venerdì dal primo incontro di Vienna. Con una fazione sola alla guida, senza il fondamentale freno delle opposizioni interne, Erdogan potrà tentare l’ultima carta: un rafforzamento dell’asse Turchia-Arabia Saudita-Qatar, sia sul piano militare che su quello diplomatico. Ovvero da una parte un ulteriore passaggio di armi e miliziani alla frontiera a favore di gruppi islamisti e moderati, che allungherà ulteriormente i tempi della guerra; dall’altra una maggiore opposizione al piano di un governo di transizione formato dal presidente Assad e dalle opposizioni, forzando così l’isolamento diplomatico a cui l’intervento russo e l’abbandono Usa del programma di addestramento dei ribelli avevano costretto Ankara.

Ovvio anche attendersi maggiore sfrontatezza sul fronte kurdo, siriano e turco, che non potrà che generare maggiore instabilità in tutta la Siria: l’Akp ha lavorato insieme ai servizi segreti alla distruzione del progetto confederale democratico di Rojava, il Kurdistan siriano, diretta emanazione delle teorie del leader del Pkk Ocalan ma anche primo fronte contro l’avanzata dell’Isis, sostenuta da Ankara per evitare minacce all’integrità dello Stato-nazione turco.

L’appoggio e il denaro che oggi gli Usa riconoscono alle Ypg kurde hanno destabilizzato Ankara, che poco prima si era vista bocciare il progetto di una zona cuscinetto al confine siriano dove addestrare ribelli e contenere il “contagio” kurdo. Colpa di Putin: l’Akp non ha mai nascosto il fastidio per l’intervento aereo russo a sostegno di Damasco, minacciando l’interruzione dei rapporti commerciali ed energetici con Mosca e aprendo le porte ad un eventuale dispiegamento delle truppe Nato sul proprio territorio. Una minaccia, quella alla Russia, più concreta con un governo guidato da un partito solo. Ma concreta si fa la minaccia anche alla nuova strategia Usa: Washington non può non tenere conto di un paese confinante con la Siria e membro del Patto Atlantico.