La Croisette si è svuotata, e già da diversi giorni. Non dei vacanzieri che anzi, almeno nelle parole di qualche ristoratore, possono finalmente godersi il mare senza i prezzi e lo stress del festival «fuori stagione». Sono gli accreditati a essere andati via, un numero già assai minore in questa edizione a causa delle restrizioni di viaggio – che hanno tenuto a casa l’Asia, l’America, l’Australia – di un Marché del Film formato ridotto e online, e forse anche del periodo che per molti mercati – quello americano in testa – non si incastra con il piano di uscite seppure rimodulato dalle «nuove regole» (post)-pandemiche.

Che festival è stato questo 2021/2020, due edizioni in una coi titoli rimasti fermi dall’anno passato, come Tre piani di Moretti, quando la pandemia ha costretto gli organizzatori a annullare tutto? Un festival bulimico, ovviamente, con troppi film e – secondo le parole della stampa internazionale – troppi film francesi. Vero. Del resto l’obiettivo era anche quello di rilanciare l’intera filiera del cinema nazionale messa in crisi dai lunghi mesi di chiusura, nei quali però proprio come in Italia i set non si sono fermati mai (e nemmeno le produzioni televisive). È ovvio che l’ansia delle novità e gli impegni presi con coloro che hanno accettato di rimandare dodici mesi l’uscita hanno creato un intasamento, costringendo il direttore artistico (o delegato generale) Thierry Frémaux, a inventare la nuova sezione Cannes Première – pare però che non ci sarà più già il prossimo anno – sacrificando così molti titoli in proiezioni semi-nascoste e senza repliche. Senza dimenticare le altre parti del festival, l’ottima Quinzaine di Paolo Moretti e la Semaine de la Critique di Charles Tesson (per l’ultimo anno) dove ci sono state molte scoperte e colpi di fulmine festivalieri. – nella prima era il magnifico Diaros de Otsoga di Miguel Gomes e Maureen Fazendeiro.

Ma: che cosa ci hanno portato del mondo – e del nostro tempo – le immagini di questi giorni? Quali tensioni, urgenze, desideri, impacci, quali interrogativi per il cinema, per l’arte e il ruolo degli artisti? Nella bolla della Croisette, tra macchine securitarie e cafonaggine, dove l’esterno arriva ovattato anche nelle urgenze comuni, una mappa dei motivi ricorrenti, delle ossessioni, dei «soggetti» obbligati dentro e fuori dagli schermi.

COVID-19. O il convitato di pietra. Frémaux e il presidente del festival, Pierre Lescure, avevano promesso cautele eccezionali – si accede solo con il test negativo ogni 48 ore, annesso un tendone per farlo, o col Green Pass – anticipando le direttive di Macron che scatteranno il prossimo lunedì, e che hanno acceso proteste e polemiche in tutta la Francia. Dal primo giorno è stato chiaro che tutto era molto più casuale: controlli solo per l’accesso al Palais mentre nelle sale, spesso piene al 100%, si poteva entrare liberamente. Ieri sera Frémaux ha dichiarato solo 70 casi individuati nelle due settimane di festival. Sono in molti a non crederci.

QR CODE. Il must della Croisette. Quello dell’attestato vaccinale, del test, del biglietto prenotato online. A volte i lettori si impallavano e veniva richiesta la vecchia copia cartacea. Panico assicurato nei più.

AUTOMOBILI. Al centro di uno dei più bei film del concorso (la nostra Palma d’oro), Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi – dal romanzo di Murakami, Uomini senza donne, Einaudi, 2015- la Saab 900 del protagonista è lo spazio nel quale si manifestano il movimento della vita, e la scoperta di una nuova consapevolezza di sé.

Una macchina è il luogo sentimentale del (molto bello) film di Mathieu Amalric, Serre-moi fort (Cannes Premiere chissà perché), dove trova rifugio al suo dolore la protagonista, Vicky Krieps, una delle rivelazioni del Festival (bravissima anche in Bergman Island di Mia Hansen-Love). In entrambi l’abitacolo si fa mondo, narrazione di un’interiorità, dei movimenti emozionali e dei conflitti.

Anche in Tre Piani la macchina è una «figura» chiave: all’inizio del film l’automobile del figlio di una delle coppie del condominio (metafora del mondo) in cui si ambienta il film di Moretti, si schianta contro la stessa casa (annunciandone la crisi). Una donna muore, le fondamenta tranquille cominciano a creparsi. Ancora un’automobile, ma in senso più «classico» come vera e propria utilitaria in Ouistreham di Emmanuel Carrère (Quinzaine): la vecchia scassatissima vettura prestata alla protagonista Juliette Binoche per poter lavorare diviene il segno della complicità di classe «tradita».

GENERAZIONI. Sarebbe il canonico madre/padre/figli con qualche variazione. È quanto interroga Nanni Moretti (Tre piani) nei rapporti tra i suoi personaggi, provando a illuminare cosa rimane del passaggio tra generazioni. Più canonico in Titane di Julia Ducournau nonostante «l’air du temps» – leggi: essere alla moda – che la regista di Grave adorata dai giovanissimi mette nel rapporto tra una figlia e un padre (Vincent Lindon, la cosa migliore del film con la sua fisicità «sfatta») gonfiato tra citazioni cronenberghiane, tradizione horror, ma soprattutto vacuità.

Una madre e una figlia è il campo/controcampo di Clara Sola di Nathalie Alvarez Mesen (Quinzaine) in una storia di liberazione e resistenza.
A Chiara – il bellissimo film di Jonas Carpignano tra i titoli premiati alla Quinzaine – segue una ragazza in una rottura esistenziale rispetto alla propria famiglia, con la scoperta che l’amato padre è legato a attività criminali. Rabbia e ostinazione per una conoscenza che si fa passaggio fondamentale verso ogni scelta.

Tout c’est bien passé di François Ozon, un padre (Dussolier) chiede alla figlia (Sophie Marceau) di farlo morire dopo un ictus. Dal libro autobiografico di Emmanuèle Bernheim, affronta un tema come l’eutanasia ma dentro a una relazione personale e con toni da commedia.

Lingui di Mahamat Saleh Haorun si confronta con il patriarcato in Africa esercitato sul corpo delle donne – tra escissione, divieto d’aborto, violenza sessuale – attraverso il rapporto complice tra una madre e sua figlia adolescente.

Annette, la struggente opera pop di Leos Carax, un melodramma famigliare, una fiaba intima sulla celebrità, l’invidia, l’impossibile amore, in cui il regista espone sé stesso in un gesto d’amore per il cinema.

LETTERATURA. Moltissimi i film in ogni sezione tratti da romanzi, autobiografie, graphic novel come accade nella sinfonia metropolitana sui sentimenti millennials di Les Olympiades di Jacques Audiard. Da Eskol Nevo per Tre piani all’opera più esplicita in cui viene messo in scena lo scrittore stesso: Tromperie di Arnaud Desplechin, una sovrimpressione all’universo di Philip Roth (a partire da Deception) nel quale il regista «traduce» se stesso e le proprie ossessioni.

Un po’ come Carrère con il libro di Florence Aubenas all’origine del suo film Ouistreham, nel quale l’inchiesta sulle condizioni di lavoro delle donne delle pulizie si fa terreno per una riflessione sul tradimento e sul ruolo dello scrittore.