Sono passati dodici anni da quando, senza dire niente al diretto interessato, i docenti di un corso di scrittura iscrissero Maurizio De Giovanni, bancario già oltre i 45 anni a un concorso per scrittori esordienti. Passata la prova il futuro autore dei romanzi del commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone si trovò per il passaggio successivo nella sala dello storico Caffè Gambrinus, sfidato a inventare una storia di sana pianta. A corto di idee, con la pagina bianca che lo irrideva immacolata mentre gli altri concorrenti picchiavano rotta di collo sui tasti, andò a un soffio dal mollare tutto e andarsene insalutato ospite. Lo salvò una bambina zingara di passaggio proprio in quel momento di fronte alle vetrate del bar. Essendo il corto circuito della creatività un mistero, nessuno potrà mai spiegare perché quell’immagine rubata alle strade di Napoli si trasformò seduta stante nel commissario Ricciardi, il poliziotto degli anni Trenta erede di un titolo nobiliare, di una vasta tenuta nel Cilento e della condanna a «vedere» l’ultimo istante di vita dei trapassati di morte violenta: gli assassinati, le vittime di incidenti mortali, i suicidi.

De Giovanni passò il turno e poi vinse il concorso con il racconto che, rimaneggiato, sarebbe poi diventato il primo romanzo della serie Ricciardi. Il decimo volume, Rondini d’inverno. Sipario per il commissario Ricciardi (Stile libero Einaudi, pp.356, euro 19) è da poco in libreria ma già in testa alle classifiche estive.
NEL 2011, ormai autore affermato, De Giovanni decise di provare, quasi per sfida con se stesso, ad abbandonare il porto ormai sicuro del commissario perseguitato dal suo indesiderato dono e della vecchia Napoli resa esotica dal trascorrere del tempo per dare vita a un nuovo personaggio, un altro poliziotto ma attuale, siciliano e trasferito a Napoli perché indicato da un pentito come complice di Cosa nostra. Da quel romanzo, Il metodo del coccodrillo, è poi discesa la serie dei Bastardi: cinque romanzi pubblicati e una serie tv, parte ripresa dai libri, parte buttata giù per l’occasione, che ha spopolato l’inverno scorso. Nel frattempo e senza contare i racconti, De Giovanni, evidentemente deciso a recuperare il tempo troppo a lungo sottratto alla sua vocazione, ha scritto un romanzo sul calcio, anzi sulla tifoseria, Il resto della settimana, pubblicato nel 2015 da Rizzoli, e qualche mese fa ha lanciato con I guardiani (Rizzoli, pp. 362, euro 19) una trilogia che si allontana dal poliziesco, sia di ieri che di oggi per misurarsi con un genere completamente diverso, il mystery archeologico ed esoterico alla Dan Brown, ma senza l’insopportabile tendenza a prendersi troppo sul serio dell’autore del Codice Da Vinci.

L’ELEMENTO COMUNE a tutta questa apparentemente eclettica produzione è sempre lo stesso: la molto amata e molto conosciuta Napoli. Si sa che in nessun genere letterario il vincolo tra plot, personaggi e sfondo metropolitano è più stringente che nel noir, tanto più se seriale. Maigret è Parigi, Marlowe è Los Angeles e l’87° Distretto di Ed McBain, maestro riconosciuto dello scrittore napoletano, non avrebbe senso senza il contesto newyorchese. De Giovanni però si spinge oltre e più a fondo. I suoi libri, in particolare quelli con Ricciardi protagonista, sono anche trattati su aspetti specifici della cultura napoletana: la sua cucina, le sue feste e le sue tradizioni, la sua musica. Allo stesso modo I guardiani, dietro la greve trama apocalittica e l’ironia leggera dello stile, è un dotto saggio sul sottosuolo di Napoli, la città sepolta nascosta sotto quella esposta agli occhi del mondo.

L’ULTIMO ROMANZO di Ricciardi, ad esempio, è un giallo che parte dall’uccisione in scena di un’attrice, folgorata dal colpo che dovrebbe essere a salve e non lo è sparato dal marito, anche lui attore ma ormai in fase di veloce decadenza. Il vero protagonista però è il mondo del varietà di Napoli negli anni Trenta, dei teatrini, delle canzoni recitate, della classica «sceneggiata napoletana»: vanno in scena le passioni, le vanità, le gelosie e soprattutto i sogni che vorticavano intorno a quei nomi sul cartellone dei teatri partenopei. Spunta, come in un cameo cinematografico, anche uno dei mattatori di quel mondo perduto: anche se figura come «Zuzù» si capisce sin dalla prima smorfia che si tratta di Totò.

QUELLA di Maurizio De Giovanni è una Napoli che sfugge ai luoghi comuni diffusi a mezzo stampa: non è la città della Camorra che campeggia sui giornali di tutto il mondo e frutta a parecchi immeritate fortune, letterarie e non solo. De Giovanni sa perfettamente che la Camorra esiste, non mira certo a negarlo. Però sa anche che vedere in una città dai centomila volti come Napoli solo la capitale d’ ’O Sistema è una menzogna, un inganno nel quale, come dimostra la classifica delle città più pericolose del mondo del tabloid Sun, finiscono per cadere in troppi. Quando nell’ultimo romanzo della serie dei Bastardi, Pane, lo scrittore frusta senza misericordia uno dei tanti tronfi magistrati d’assalto antimafia, diventato un divo grazie alla lotta contro la Camorra e incapace di vedere che nemmeno nei vicoli del delitto tutto è Camorra, indica una degenerazione culturale che, per Napoli, è tanto micidiale quanto lo strapotere dei clan.

IL DONO MALEDETTO che danna l’esistenza del commissario Ricciardi è la trovata che ha permesso a De Giovanni di mettersi in evidenza e che distingue il suo poliziotto dai tanti colleghi di carta stampata che, con o senza divisa, investigano ormai in quasi tutte le città italiane. Però né l’originalità dell’idea né il trasporto appassionato e colto per Napoli rendono davvero conto del segreto che ha fatto di Maurizio De Giovanni forse il miglior autore noir italiano. In un certo senso lo scrittore napoletano percorre a ritroso la strada indicata quasi un secolo fa dai creatori dell’hard boiled, restituendo al delitto le sue radici che spesso affondano nei pozzi profondi delle passioni, dei sentimenti impazziti, della gelosia, del rancore, dell’amore tradito. Maurizio De Giovanni non aggira lo scoglio del movente con l’ormai abituale ricorso all’irrazionalità dei serial killer o all’impersonalità delle strutture criminali. Usa il noir come lente per scandagliare l’animo umano e le sue tempeste emotive, perché sono loro che finiscono spesso per armare le mani omicide. Nel suo albero genealogico più di Dashiell Hammett figura un Georges Simenon rimaneggiato con lo spirito della commedia napoletana.

De Giovanni, inoltre, porta alle estreme conseguenze la lezione del maestro McBain: non solo intreccia il plot giallo con le vicende private dei protagonisti, ma rende queste ultime tanto importanti quanto il versante poliziesco. Affida proprio alle vicissitudini sentimentali, agli equivoci, agli imprevisti, alle incomprensioni fatali il compito di veicolare la serialità e di imporre la suspence tra un romanzo e l’altro.

TRAMA NOIR e contesto seriale vertono entrambi su passioni e sentimenti, spesso i due piani si rispecchiano e si riflettono l’uno nell’altro in ciascun romanzo: il risultato è una sorta di sostanzialmente inedito mix tra noir e «rosa», generi della letteratura popolare che abitualmente si trovano all’estremo opposto. De Giovanni dimostra invece che tra la caccia agli assassini e la capricciosa meteorologia del cuore non c’è alcuna incompatibilità e che, anzi, spesso saper osservare e capire quest’ultima aiuta non solo a scoprire «chi l’ha fatto», chi è l’assassino, ma anche a comprenderne le ragioni, senza dover giudicare. In fondo il segreto di De Giovanni è forse tutto qui: nell’aver accostato ai suoi maestri più tradizionali, McBain e Simenon, anche Jane Austen. Esperimento azzardato. Ma nella pratica, cioè nei romanzi di Maurizio De Giovanni, funziona.