In principio era la linea»: così lo storico dell’arte tedesco Julius Meier-Graefe, fra gli intellettuali più influenti nella Germania del primo Novecento, apre la sua monografia su Félix Vallotton pubblicata nel 1898, quando il nome del pittore svizzero, poco più che trentenne, aveva iniziato a circolare a Berlino e a Monaco attraverso riviste specializzate come « Pan» e « Jugend ». In un’edizione bilingue – in francese e tedesco – dall’elegante formato orizzontale, Meier-Graefe prende in esame e riproduce le incisioni silografiche che avevano reso noto l’artista a Parigi a partire dal 1891. Questo volume si trova oggi esposto all’interno della mostra Félix Vallotton Painter of Disquiet, a cura di Ann Dumas e Dita Amory, fino al 26 gennaio al Metropolitan Museum di New York, dopo una prima tappa a Londra, Royal Academy.
Sebbene si tratti di un progetto di collaborazione tra le due istituzioni, non tutte le opere sono state esposte in entrambe le sedi; alcuni dei dipinti provenienti da collezioni svizzere non sono arrivati oltreoceano, mentre il volume di Maier-Graefe ha trovato un posto d’onore soltanto a New York, nella sala dedicata alla grafica, accanto a circa quaranta fogli – fra incisioni, illustrazioni e disegni – che ben esemplificano l’originalità del suo stile.
Figura poliedrica ed eclettica – simpatizzante anarchico, fu anche critico d’arte e autore di alcuni romanzi e testi per il teatro – Vallotton prese le mosse dall’arte di Ingres e di Puvis de Chavannes, di Gauguin e dalle stampe giapponesi, per giungere a modernizzare la tecnica silografica attraverso uno stile sintetico e incisivo, producendo fogli di critica sociale senza cadere nello spirito della blague di Gavarni o anche di Daumier.
Originario della Svizzera francese, l’artista si era stabilito a Parigi ad appena sedici anni e, dopo aver frequentato l’Academie Julian e intrapreso alcuni primi lavori di artigianato artistico, nel 1891 aveva iniziato a cimentarsi nell’incisione su legno. Due anni più tardi il suo stile è già maturo, come è evidente nella serie Paris intense (1893) in mostra a New York. Con caustica concisione prende di mira le folle di Parigi – pochi anni dopo uscirà La psychologie des foules di Gustave Le Bon (1895) – utilizzando un tono sardonico la cui forza risiede nell’oscillazione tra elemento realistico del taglio fotografico e sintesi decorativa della sua trasposizione lineare. Questo effetto si intensifica nelle serie di incisioni successive, dove omette di suggerire i dettagli realistici prediligendo ampie campiture di nero senza passaggi luministici, che evidenziano un gusto per l’arabesco simile negli esiti all’Art Nouveau.
Grazie all’originalità di questo stile fu avvicinato da artisti e letterati quali Toulouse-Lautrec, Verlaine e Mallarmé, e iniziò a lavorare intensamente per molte riviste francesi, oltre a riscuotere una certa notorietà anche nella stampa anglosassone, come ha messo in luce Katia Poletti nel catalogo della mostra. Chiamato il Nabi étranger all’interno del gruppo di Maurice Denis, Pierre Bonnard e Edouard Vuillard, con i quali condivise le soluzioni antinaturalistiche e il ricorso all’à plat, la sua affiliazione, a partire dal 1893, fra i Profeti non fu, però, priva di riserve. Vallotton, infatti, non giunse mai a sostituire la rappresentazione della realtà con un simbolismo astratto come fecero invece i suoi colleghi. Ma è accanto a loro che ebbe occasione di esporre a Parigi i suoi risultati in pittura, tecnica che gradualmente, tra 1897 e 1899, divenne la sua principale occupazione. Se il bianco e nero lo aveva fatto conoscere al grande pubblico, l’artista considerava il mestiere di illustratore come un ripiego, cui si era dedicato per necessità economiche rispetto all’esercizio più nobilitante della pittura.
Negli ultimi anni, a partire dall’importante mostra Félix Vallotton. Le feu sous la glace, organizzata al Grand Palais di Parigi nel 2013 da Isabelle Cahn e Marina Ducrey, l’attenzione della critica si è concentrata su una rivalutazione della sua produzione pittorica – che conta più di 1200 opere – considerata oggi anticipatrice di alcune tendenze del Novecento.
Attraverso gli oltre quaranta dipinti, la mostra del Metropolitan mette in evidenza l’eclettismo dello stile pittorico di Vallotton, teso fra realismo tardo-ottocentesco, sintetismo di scuola Nabis e risultati iperrealistici affini alla Nuova Oggettività. Ed è infatti la grande tela La Blanche e la Noire (1914) ad aprire visivamente la mostra di New York, una moderna versione dell’Olympia di Manet composta a partire dal contrasto di colori e posture delle due giovani modelle, restituite con un realismo pienamente novecentesco.
Ma quel che distingue l’intero corpus della sua produzione è il perdurare di una prospettiva amaramente disincantata: «Sono stato per tutta la vita colui che, da dietro un vetro, vede vivere e non vive», dichiara. All’interno di inquadrature fotografiche, la ricercatezza dei cromatismi piatti e brillanti è sostenuta da efficaci rapporti di luce e ombra che ne fanno un maestro della messa in scena. Questo «pittore dell’inquietudine» ottiene un effetto perturbante attraverso il continuo ricorso alla linea. Come scrive ancora Maier-Graefe, «Vallotton è innamorato della linea» e anche nei suoi dipinti «il colore non è che un mezzo per perfezionare le intenzioni del disegno». L’ integrazione tra i risultati ottenuti nel campo della grafica e lo stile pittorico passa anche attraverso l’esercizio del disegno, come risulta dal confronto presente in mostra tra le incisioni e i disegni preparatori della serie dei Sei strumenti musicali (1895-’96), realizzata per la «Revue Blanche», che evidenzia l’emergere di uno stile così unico e perturbante per l’osservatore da essere definito dall’amico e scrittore Octave Uzanne come «vallottonisme».
La presenza in mostra dei ritratti dell’editore Thadée Natanson (1897) e della moglie Misia (1898) testimonia il profondo legame di amicizia e le affinità intellettuali che legarono Vallotton alla «Revue Blanche», con la quale collaborò per circa sette anni. Oltre a condividere le simpatie anarchiche della rivista, l’artista riuscì a dare forma visiva a quel gusto per la satira e per il frammento che univa molti membri della redazione. Le sue incisioni possono dunque essere avvicinate al genere letterario dei faits divers di Felix Féneon, brevi racconti di poche righe che assecondano con vena amaramente ironica la curiosità voyeuristica delle «folle». Con un intento simile, Vallotton realizza le incisioni dal titolo Intimités per le edizioni della rivista, punto di partenza di una serie di quadri di interni esposti in mostra. Attraverso le superfici levigate di colore, all’osservatore è concesso di spiare i vizi e le ipocrisie che si nascondono dietro le pareti degli appartamenti borghesi e trovarvi gli elementi più inquietanti, anticipazione dell’Unheimlich freudiano: il lato oscuro dell’uomo ‘benpensante’ emerge alla luce attenuata degli abat-jours sulla superficie decorata delle stanze. Come in Dostoevskij, scrittore che amava, Vallotton sembra criticare questa società sebbene ne sia partecipe: «Direi che dipingo per persone equilibrate portatrici però, nella profonda interiorità, di un po’ di vizio inconfessato. Amo d’altronde questa condizione, che peraltro mi è propria”, dichiara egli stesso.
Non sorprende, dunque, se nel 1899 Vallotton scelga di entrare a far parte di questa società con un matrimonio di convenienza con la figlia del gallerista Bernheim-Jeune: «La famiglia è ricca e sarà, ritengo, di rilevante aiuto per la mia carriera», annuncia al fratello. La previsione è esatta: oltre a essere rappresentato dalla galleria, nel 1913 ne viene aperta una seconda sede a Losanna sotto la direzione proprio del fratello Paul, grazie alla quale la fortuna critica di Félix ha potuto godere di una certa continuità fino al secondo Novecento, rimanendo una fonte di ispirazione imprescindibile per molti artisti che, come lui, hanno privilegiato un punto di vista disincantato sul mondo, da Edward Hopper fino ad Alex Katz.