«Fiducia con riserva», «fiducia critica», «segnale di debolezza del governo». La minoranza Pd incassa l’ennesimo ceffone dal premier, si arrende e prova a trovare le parole. La gran parte dei senatori contrari alla legge delega voteranno la fiducia «per senso di responsabilità verso il paese, i numeri del senato sono noti, qui non si scherza», spiega Miguel Gotor all’uscita dalla riunione degli ex bersaniani a Palazzo Cenci, a due passi dal senato. Lì poco alle cinque si riunisce il gruppo di testa della battaglia nata morta sul jobs act. Ma c’è poco da discutere: il testo del maxiemendamento del governo non c’è, e non ci sarà fino a stamattina. Il governo lo depositerà alla fine della discussione generale. Dalle anticipazioni, i giovani turchi prendono atto che i loro tre emendamenti sono stati accolti. «Guai ai passi falsi che potrebbero rendere inutile o dannoso il provvedimento», avverte Francesco Verducci. Anche i bersaniani vedono nel testo qualche gesto di buona volontà. Ma dell’art.18 non c’è cenno. «È un paradosso», attacca Gotor, «nel nuovo testo non c’è quello che la direzione Pd ha votato a stragrande maggioranza sul reintegro per licenziamento disciplinare. E perché? Perché Renzi con il famoso 40,8 per cento accetta i diktat di Sacconi dell’Ncd, che ha il 4». Sarà anche debole il governo, ma è la minoranza Pd a incassare la sconfitta di una partita neanche giocata. I bersaniani pensano a un documento per mettere a verbale le proprie critiche.

Per tutto giorno va in scena il senato delle beffe. La mattina il numero legale manca per quattro volte prima che la presidente di turno Linda Lanzillotta mandi tutti nello spogliatoio. I renziani giurano che l’aula deserta è il sintomo dei malumori delle destre. Ma la verità è che il nuovo testo non c’è. Alle quattro del pomeriggio la sottosegretaria al lavoro Teresa Bellanova prima di entrare in aula annuncia: «Siamo pronti, appena arriva la bollinatura della ragioneria di stato sarà presentato». E invece due ore dopo il testo è ancora in alto mare. Arriverà stamattina a fine dibattito generale. Il voto di fiducia si svolgerà nel pomeriggio. Tanta fretta: Renzi deve annunciare l’approvazione della riforma al vertice Ue di oggi a Milano. Ma siamo all’annuncite preventiva: il voto in realtà arriverà in serata, a vertice chiuso.

Le beffe vanno avanti nel pomeriggio. I senatori in aula elogiano o attaccano un testo che non conoscono. Pippo Civati si appella a Napolitano: «La questione di fiducia viene posta su un disegno di legge delega, per il quale l’art. 72 della Costituzione, disponendo una riserva di assemblea, intende assicurare la più ampia discussione, e che, spostando il potere normativo dal parlamento al governo, deve lasciare il primo pienamente libero di stabilire se e in quali termini farlo». Stavolta siamo all’assurdo di un governo che impone una delega generica, e poi persino la fiducia sulla delega.

Ma anche il gruppetto dei sette civatiani procede in ordine sparso. In aula sono durissimi Lucrezia Ricchiuti e Walter Tocci. La prima: «Abrogare l’art. 18 equivale a legalizzare il furto o la rapina». Il direttore del Centro riforma dello stato: «Non siamo stati eletti per abbassare le tutele dei lavoratori». Ma alla fine quelli che lasceranno l’aula non saranno più di tre o quattro. Massimo Mucchetti già annuncia che voterà la fiducia, Corradino Mineo si riserva di vedere bene il nuovo testo. E Felice Casson attraversa il Transatlantico a passo veloce: «Ero alla riunione del Copasir, non ne so nulla, mi informerò».

I 5 stelle e Sel ritirano centinaia di emendamenti «per togliere ogni alibi al premier e vedere quanto davvero voglia discutere», mantengono solo i «fondamentali». Ma il premier francamente se ne infischia. Perché «ha un talento per capire quali sono le questioni su cui gli elettori stanno con lui, e su quelle cerca la rupture», spiega Nicola Latorre, già dalemiano oggi renzianissimo, «Del resto era quello che volevamo fare noi», sottinteso D’Alema e i suoi, «solo che nel ’97 eravamo minoranza. Adesso Renzi sa che la maggioranza del paese è con lui».

Latorre coglie il punto vero, quello che rende le minoranze Pd prigioniere politiche: Renzi, ne sono tutti convinti, ha il vento in poppa nella società. A taccuino chiuso c’è chi spiega che che la chiave di volta sarà la manifestazione del 25 ottobre. Renzi in mattinata ci ha scherzato alla riunione della sala Verde: si aspettano 3 milioni di persone, come quelli di Cofferati del 2002? La verità è che in molti nel Pd temono che la mobilitazione della Cgil sarà un flop. «E che potremmo fare noi, qui nel palazzo, se i lavoratori che difendiamo volteranno le spalle al sindacato?».