Com’è stato possibile che la sinistra negli ultimi decenni sia stata così permeabile ai luoghi comuni del neoliberalismo, sia nella variante tecnocratica, sia in quella moralistico-globalista, scoprendosi senza anticorpi di fronte a una teoria economica che si propone come «scientifica», ma è a tutti gli effetti un’ideologia post-politica dell’umano?
Per comprendere questa malia occorre scavare nella cultura della sinistra post-marxista. Hanno pesato vari fattori, ascrivibili però a un comun denominatore: la svalutazione della politica, subordinata alle logiche «oggettive» del Capitale, e perciò da superare (ciò ha condotto, specularmente, o a un uso spregiudicato del potere, o a una vera e propria fuga da esso); la sacralizzazione degli automatismi dell’immanenza sociale, che conduce alla neutralizzazione dell’idea stessa di eteronomia politica e di progettualità costituzionale; l’incapacità di pensare un’alternativa se non all’interno di uno schema ideologico dogmatico, che si è rovesciato prontamente, dopo il 1989, nell’adesione a un’idea di policy amministrativa come gestione dei vincoli imposti dalla nuova egemonia finanzcapitalistica, e nella retorica dell’orizzontalità della governance.

In questo cedimento da sinistra alla spoliticizzazione ha inciso, da un lato, il vecchio determinismo ereditato dalla Seconda Internazionale e mai del tutto superato, per cui l’ontologia del conflitto sociale viene paradossalmente trasposta su un piano positivista e scientista, esponendo la critica marxista al rischio della «naturalizzazione» (un dispositivo tipico anche del neoliberismo); dall’altro un malinteso realismo, che si è risolto in moderatismo quietista e culto della stabilità.
La lezione di Gramsci, che aveva colto gli elementi strutturali della società civile e la dimensione simbolico-molecolare dell’egemonia, era di fatto rimossa. La sua sostituzione con astratte teorie «morali» della giustizia non poteva certo compensare il vuoto di pensiero critico.

Tale impasse culturale della sinistra non è affatto superata. Un esempio di persistenza degli equivoci è la recente proposta di Van Parijs (cfr. The Eurodividend: Why the UE should introduce a basic income for all), di fronte alla crisi dell’eurozona, di un «eurodividendo» (il lessico aziendalista e finanziario è rivelativo) di 200 euro circa, che servirebbe a mutare la percezione dell’Europa. Peccato che sia un’operazione illusionistica e regressiva: sia perché si tratterebbe in definitiva di una mancetta; sia perché dovrebbe servire a procacciare consenso all’eurozona, senza incidere sulla sua  logica di funzionamento (le cui conseguenze per i paesi del sud  sono deflazione salariale, disoccupazione, emigrazione coatta dei giovani); sia perché il costo dell’eurodividendo dovrebbe essere coperto attraverso un ulteriore taglio alle spese sociali.
Bisogna essere molto chiari: una cosa è la proposta di reddito minimo che nasce sul terreno neoliberale  (la prima formulazione è di Hayek, non a caso), come sostituzione del Welfare e delle politiche pubbliche per creare lavoro, in una logica iperindividualistica e antiegualitaria  di privatizzazione e spoliticizzazione del sociale.  Altra cosa è un reddito di base per togliere dal ricatto della precarietà, come strumento integrativo di lotte per rivalutare il lavoro e di politiche volte a rilanciare lo Stato sociale e gli investimenti pubblici (ad esempio in innovazione tecnologica e ambientale).

In realtà il lavoro non mancherebbe davvero, in questa chiave, se solo pensiamo alla condizione in cui versa il nostro territorio e alla drammatica mancanza di infrastrutture, soprattutto al sud.
Se siamo convinti che sia prioritario lottare contro il neoliberismo, non ci si può accontentare di limitarne i danni, come se si trattasse di un paradigma di fatto indisponibile, ovvero assumendo il dato ideologico della sua naturalizzazione. È necessario, invece, tornare a porsi l’obiettivo di spostare i rapporti di forza collettivi, avviando una riflessione politica conseguente.
L’esempio di Corbyn dimostra che è possibile ripoliticizzare la società. La Brexit ha riaperto un terreno conflittuale, che si trattava di raccogliere con credibilità: innanzitutto comprendendo che alla sua base c’è stata prioritariamente la riemersione della questione sociale. E poi marcando una netta discontinuità, una frattura critica radicale,  rispetto alla «terza via» blairiana (cioè all’introiezione  «riformistica» dei dogmi thatcheriani).
Oggi, di fronte alla crisi della globalizzazione, decisivo diventa capire come generare, tornando sui territori, un’energia politica dal rigoroso profilo democratico in grado di alimentare speranza tra gli inferiorizzati e gli esclusi e di mettere pressione alle élites globaliste. Ma per far questo occorre una netta scelta di campo popolare e sociale. E una critica spietata delle varie forme di subalternità alla narrazione neoliberale.