La querelle aperta tra il presidente del Consiglio Renzi e il mondo Rai sui 150 milioni, con tanto di sciopero di tutte le categorie e tutte le sigle sindacali, propone temi fondamentali anche per l’identità di una sinistra, per così dire, all’altezza dei tempi.

Si tratterebbe infatti di ridefinire che cosa si intende per intervento e servizio pubblico, e anche di avere un’idea aggiornata e convincente del rapporto tra democrazia, informazione, spettacolo.

Non mancano posizioni, assai diverse, ma aperte: Angelo Guglielmi (ieri su Repubblica), Giuliano Ferrara (sul Foglio del lunedì) Giuseppe Giulietti (sul sito di Articolo 21). Andrebbero tutte nel senso di suscitare finalmente un serio discorso sulla riforma della Rai per qualificarne le varie capacità produttive, superando vecchie logiche di appartenenza politica e di protezione oligopolistica.

Mi è capitato, molti anni fa, di collaborare per un anno con la Rai, scoprendone la realtà ricca e contraddittoria: una specie di mega-ministero burocratico e lottizzato, ma anche un laboratorio di nuove professionalità, di ricerca, dotato di uno straordinario archivio della memoria del paese.

La «lottizzazione» era insopportabile già a quei tempi (correva il fatidico anno 2000- 2001, la cosiddetta prima Repubblica era già tramontata, travolta dall’89 e da Tengentopoli: qualcuno si ricorda del referendum interno che spodestò nel ‘92 l’allora direttore del Tg1 Bruno Vespa?) ma era anche un modo per garantire un certo pluralismo non sempre culturalmente disprezzabile, e un qualche raccordo con un sistema politico peraltro già terremotato.

Oggi non ha più alcun senso e Renzi con il suo gesto, al solito senza riguardi, indica a tutti che «il re è nudo».

Tra le tante questioni da affrontare ne cito una, che conosco almeno un po’: il rapporto tra qualità dell’informazione, e quindi capacità professionale giornalistica, e buona salute democratica.

Il mondo dei media vive una crisi acutissima, con un meccanismo infernale che si morde la coda: la concorrenza gratuita di Internet mette in ginocchio le redazioni giornalistiche. Per competere dovrebbero offrire rigore, attendibilità, qualità del prodotto, ma questo richiederebbe più alti costi per remunerare le professionalità e i tempi di lavoro necessari. Mancano i soldi e il risultato è più o meno l’opposto.

Si potrebbe parlare anche in questo caso di un fallimento di mercato? Già l’informazione è quella merce bizzarra che, pur essendo in un certo senso indispensabile, da sola non si riesce a vendere remunerandone il costo, e bisogna incartarla insieme alla pubblicità, con non pochi effetti distorsivi.

Pagherei volentieri il canone, quindi, se uno dei compiti – se non il principale – di un servizio pubblico fosse quello di sostenere un settore giornalistico con la missione (quasi religiosa) di informare nel modo più approfondito, trasparente e efficace i cittadini di ciò che accade in Italia e nel mondo. Favorendo così la crescita di una opinione pubblica non del tutto preda di chi urla (e spesso mente) più forte.

È arduo tematizzare questo argomento in termini culturali, tecnico-professionali, istituzionali e economici. Ma una sinistra «all’altezza dei tempi» dovrebbe considerarlo una priorità. L’attuale verticale crisi della rappresentanza è connessa a una altrettanto grave insufficienza della rappresentazione della realtà sociale e politica. E le responsabilità della «casta» dei politici – almeno per me – non sono molto diverse da quelle della speculare «casta» dell’informazione, nella Rai e fuori dalla Rai.