Le aiuole spartitraffico dell’autostrada che dall’aeroporto di Singapore porta sino al centro di Marina Bay sono in realtà composte per un lungo tratto da tanti vasi di fiori affiancati. «All’occorrenza, in caso di emergenza o di necessità, è possibile spostarle così da ricavare una nuova pista d’atterraggio», spiega la guida. Pianificazione ed efficienza. L’intera città sembra trasudare di questi due concetti.
L’impressione è di un riuscito esperimento di ingegneria sociale. Ma secondo lo storico ed esperto di Asia orientale, John Curtis Perry sono altre due le parole che descrivono al meglio quest’isola di 5 milioni di abitanti racchiusi in poco più di 660 chilometri quadrati. Sono ambizione e ansietà a rendere al meglio lo sforzo della dirigenza locale per trasformare la città del Leone nella «unlikely power», la «potenza improbabile», come Perry la definisce nel titolo del suo ultimo libro.

«Una mentalità survivalista, costruita artificialmente dal governo, continua a guidare i traguardi nell’istruzione, l’organizzazione militare, l’attaccamento al risparmio, la ricerca di nicchie di competitività economica e il desiderio di ruolo più grande nella comunità globale», scrive lo studioso in un estratto del suo volume ripreso da National Interest.

D’altra parte il paese, a differenza degli stati limitrofi, non può vantare risorse naturali. È comunque riuscito a fare tesoro della propria posizione. Un’intuizione avuta già nel 1819 dal fondatore Thomas Raffle, riconoscendone le potenzialità come porto commerciale e punto di svolta per gli scambi tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano. «Si dice che in porto entri una nave cargo ogni tre minuti», ripete ancora la guida. E non è difficile crederlo guardando la spianata di gru e moli in continua espansione.

«Comprano isole indonesiane, trasportano qui la terra e continuano ad ampliare le infrastrutture», racconta un manager italiano indicando le banchine che si vedono dal proprio ufficio. Non è un caso quindi che sempre Perry individui nell’invenzione dei container uno dei principali punti di svolta nella storia singaporiana.
In piedi davanti allo schermo sul quale scorrono grafici e numeri,il rappresentante dell’Economic Development Board elenca quali saranno gli sviluppi in campo medico e sanitario negli anni a venire. Le slide mettono in fila la pianificazione meticolosa iniziata nei primi anni Duemila e le cifre che il governo intende spendere. Al 2020, l’esecutivo ha stanziato risorse per 19 miliardi di dollari singaporiani.

Giacca color avion, camicia bianca sbottonata sul collo, inglese fluente, anche se con un marcato accento asiatico, un’età che a prima vista si direbbe attorno ai trent’anni, ma chi lo conosce spiega che va sulla quarantina, il funzionario dell’agenzia che ricade sotto il ministero del Commercio è la personificazione dello modo in cui si fa «soft power» in questo lembo di sudest asiatico.

D’altra parte l’Edb serve a questo, attrarre investitori nel Paese e facilitarne il lavoro tanto nei servizi quanto nel manifatturiero. E in questo modo accrescere la forza del paese. Incentivi fiscali e bandi di finanziamento fanno il resto. Si tratta di un compito che svolge sin dal 1961, vale a dire da quattro anni prima che Singapore decise per l’indipendenza dopo un tumultuoso triennio di convivenza con la Malaysia.

Oggi la città-Stato è in cima all’indice Doing Business stilato dalla Banca Mondiale, preceduta soltanto dalla Nuova Zelanda. Commercio, finanza e, forse l’aspetto più sorprendente, manifatturiero, il cui peso complessivo sull’economia locale è di circa un quinto. Per lo più si tratta di produzioni ad alto valore aggiunto. Perché è questo che il governo cerca: innovazione ed alta tecnologia.
«Qui il comunismo è al servizio del capitalismo, o viceversa, a seconda dei punti di vista», commenta Pietro Giovanni Corsa,general manager di Menarini, gruppo farmaceutico italiano che a Singapore ha gli uffici dai quali guarda all’espansione nell’area dell’Asia e del Pacifico.

Nella patria del capitalismo autoritario e paternalistico prescritto da Lee Kuan Yew, (il più grande Ceo al mondo dopo Bill Gates, a detta di alcuni) a farla da padrone sono infatti le società pubbliche, su tutte i due potenti fondi sovrani Temasek e Cig. E i piani quinquennali dettano il ritmo del progresso.

Deceduto due anni fa Lee, padre dell’attuale primo ministro, dopo l’indipendenza fu a sua volta a capo del governo per un trentennio.
«Ha governato con il pugno di ferro», ripete il tassista di origine cinese con un tono che fa trasparire ammirazione. Non l’unico sia ben chiaro. Il modello singaporiano fu ispirazione per Deng Xiaoping nel processo di riforma della Cina finita l’epoca maoista. La Repubblica popolare di oggi, scriveva il China Daily celebrando Lee nel giorno della sua morte, ne ha condiviso «l’esperienza di governance di successo».

Anche Bo Xilai, ricorda Perry, da sindaco di Dalian amministrò tenendo un occhio all’hub finanziario asiatico, piantando alberi, e premiando i cittadini che denunciavano i tassisti maleducati.
Il rovescio della medaglia è un dibattito che, a voler usare un eufemismo, si può definire non eccessivamente acceso. La stampa locale è «un bollettino», commenta un osservatore.
Il People’s Action Party, domina incontrastato, anche se nel 2011 è andato quasi sotto la soglia psicologica del 60% delle preferenze. Gli anni successivi hanno visto una crescente insofferenza della popolazione per via del costo della vita.

La risposta è stata una stretta contro l’immigrazione e una finanziaria orientata a garantire il benessere dei locali. Risultato: alle elezioni del 2015 il Pap è tornato attorno al 70% dei voti. «La mancanza di confronto sembra non dispiacere più di tanto ai singaporiani», commenta un italiano da alcuni anni nell’isola. O almeno così sarà fintanto che il governo garantirà i adeguati livelli di vita. L’impressione è che comunque l’influenza di Singapore e il ruolo di snodo commerciale possa durare per almeno i prossimi 20 anni, spiega un osservatore. Certo il rischio è che la città si trovi invischiata nelle tensioni sul Mar cinese meridionale che oppongono Pechino a diversi stati dell’area, i quali possono contare sugli Usa come proprio nume tutelare.