Roma, 16 giugno 2015. La tensione dell’attesa, la spirale di oscurità e malinconia, il fumo di un cigarillo, l’impossibilità di raggiungere la luna, due amanti che non lo saranno mai, canta Leonard Cohen in Sing another song, boys, brano dell’album Songs of Love and Hate registrato dal vivo all’Isle of Wight Festival nell’agosto 1970.

E’ un caso – ma sappiamo che il caso ha più di una sfaccettatura – che Michael Ackerman (Tel Aviv 1967) stesse ascoltando proprio questa canzone, nella sua abitazione a Varsavia, quando Lorenzo Castore (Firenze 1973) lo chiamò al telefono per decidere il titolo della mostra romana. “Lorenzo pensava che dovesse essere il titolo di una canzone”, spiega il fotografo americano. “La musica ci lega moltissimo.

Un aneddoto che ci porta direttamente nel cuore di una storia che vede protagonisti due amici e il mezzo che usano per cercare di decifrare se stessi e, forse, il mondo che li circonda: la fotografia.

All’immediatezza della scelta del titolo di questa loro seconda doppia personale (la prima Fedeli alla linea è stata nel 2003, negli spazi del Klub Alchemia a Cracovia in occasione della III edizione del Krakow Photomonth Festival) corrisponde una meditata selezione di immagini tra bianco e nero e colore. Frammenti di un vissuto in parte condiviso che viaggiano parallelamente al di là del tempo e delle circostanze, legati al passato ma sospesi nel presente che è già poi, o forse prima. Nasce così la mostra Sing another song, boys. Michael Ackerman e Lorenzo Castore, curata da Michele Corleone nella galleria romana Interzone (fino all’8 settembre), nel circuito di FotoLeggendo 2015.

Cracovia, e più in generale la Polonia, è un luogo che fa parte della vostra storia personale…

Lorenzo Castore: Geograficamente, sì.

Michael Ackerman: Per alcuni anni ho avuto un appartamento a Cracovia, dove vivevo. Lorenzo è stato mio ospite. Ci siamo conosciuti a Milano sulla rotta per la Polonia.

LC: Michael aveva una mostra alla Fnac di Milano, era il 2001. Elena Ceratti che lavorava per Grazia Neri, l’agenzia che all’epoca rappresentava il lavoro di Michael, conoscendo tutti e due insistette perché ci conoscessimo. Andai alla sua mostra con l’idea che effettivamente avevamo molto in comune, pur essendo lui un po’ più grande di me. Intanto perché era stato in India e veniva da New York, due posti che per motivi diversi erano per me i più importanti. Due anni prima, inoltre, avevo iniziato a recarmi in Polonia, a Gliwice nella zona della Slesia. Gli dissi che la settimana successiva sarei andato lì. Anche lui era diretto in Polonia, esattamente a Katowice che dista meno di trenta chilometri dalla città dove stavo andando. Quindi ci siamo dati appuntamento in Slesia, dove entrambi avevamo una fidanzata, oltre a trascorrervi molto tempo a fotografare. Eravamo attratti dagli stessi luoghi, ci piaceva la stessa musica, avevamo entrambi i capelli rasati, sentivamo di avere delle affinità.

Tra queste affinità sembra presente una sorta di nomadismo mentale, oltre che fisico, che si riflette nel vostro lavoro. E’ così?

MA: Sì c’è uno spirito nomade, ma anche domestico.

LC: Da questo punto di vista credo che siamo un po’ schizofrenici. E’ un cercare di trovare casa, ma avere delle difficoltà a capire dove, poi costruirla e volersi muovere. E’ un po’ una lotta interiore questo cercare continuo di far convivere le due cose.

MA: Questa tensione tra il sentirmi a casa e il sentirmi perso è sempre fortissima. Non mi sento veramente a casa da nessuna parte, ad eccezione con alcune persone con cui vivo. Ma non si tratta di un luogo fisico.

LC: Lo stare insieme, Michael ed io, ci ha fatto sentire a casa in molti posti, come essere in famiglia.

L’India e New York: in che modo queste diverse realtà geografiche sono state significative nel percorso di ognuno di voi?

MA: In entrambi si trova del buon cibo indiano! (ride)

LC: Questa è una buona risposta per la TV! (ride).

Ho letto da qualche parte che Michael quando non fotografa, cucina e fa l’uomo di casa…

LC: Il cibo è sempre importante.

Torniamo all’India, che si ama o si odia. A Varanasi è dedicato il libro End Time City con cui Ackerman ha ricevuto nel 1999 il Nadar Award…

LC: Il mio viaggio più importante è stato proprio in India nel ’97. Avevo 24 anni appena compiuti e, anche se suona un po’ “frikkettone”, è stato il viaggio che mi ha segnato. Qui in mostra ci sono due foto che ho scattato in India, dove sono rimasto per due mesi. C’è il ritratto di Giorgio Mortari che è scomparso due anni fa, ideatore e direttore di Dissonanze Festival, mio amico fraterno insieme a Saverio Costanzo, bravissimo regista. New York, invece, è la città dove mio padre ha vissuto per tanti anni. E’ stato il primo posto dove sono stato all’estero, quindi ha a che vedere con un immaginario di grattaceli e cose che non avevo mai visto. E’ stato anche il primo viaggio che abbia mai fatto in vita mia con mio padre. New York è una città dove sono tornato tante volte, dove ho cominciato a fotografare per strada, guadagnando a 19 anni i miei primi soldi. Lì ho passato tanti Natali, un posto che era di casa per me. La mia prima New York era fatta di tutto questo, poi c’è stata una seconda New York, quando sono andato a trovare Michael.

MA: Ero molto giovane quando sono andato in India. Amavo la folla, la sua intensità e la passione religiosa. Penso che sia questo il motivo per cui andai lì. Avevo 25 anni, ero cresciuto a New York, ma prima non avevo mai viaggiato, tranne che con i miei genitori quando ero un ragazzino di 7 anni e da Tel Aviv, dove sono nato, ci trasferimmo lì. Per la verità stavo andando a fotografare qualcosa nelle Filippine, ma era così lontano che qualcuno mi disse che avrei potuto andare in India. Arrivai lì per caso e la mia immaginazione ne fu sconvolta. Girai molti posti con lo zaino sulle spalle. La prima volta rimasi due mesi e mezzo, tornai a New York e ripartii per sei mesi e poi un’altra volta ci andai per un periodo più breve. Ma ogni volta dovevo tornare a Varanasi.

A Varanasi, dove più che altrove il confine tra la vita e la morte è impercettibile, sei riuscito a cogliere proprio questo passaggio…

MA: Sì, proprio perché il confine è così aperto e naturale. Anche io lì mi sentivo aperto. Nella mia vita, prima di allora, non avevo mai visto niente di simile.

E’ stato difficile usare la macchina fotografica per approcciare la morte?

MA: No, anzi è stato più facile con la macchina fotografica. Penso che la macchina fotografica sia una protezione. Quando, in Polonia, ho visitato Auschwitz la macchina fotografica mi ha protetto. Se fossi andato lì solo per vedere sarebbe stato troppo doloroso.

Per entrambi la fotografia è un mezzo di conoscenza interiore. E’ anche una chiave per interpretare il mondo?

LC: Per me è sicuramente un mezzo per conoscere me stesso. Diventa difficile, poi, capire se attraverso questo si arriva a conoscere il mondo. Però già conoscere se stessi non è male! Non è così automatico e semplice come si pensa quando si è più piccoli, è molto più complesso. L’uso della fotografia, per quanto mi riguarda, è stato come una psicoanalisi, non solo del vissuto anche della mia genetica.

MA: Sì, naturalmente. Senza l’uno non è possibile l’altro.

Anche l’autoritratto diventa elemento di conoscenza?

MA: Non credo molto nell’autoritratto. Ne avrò fatto uno o due al massimo.

LC: Credo che l’autoritratto sia un po’ un “fair play” con tutto quello che si fotografa fuori. Nel senso che se si fotografa così tanto di se stessi al di fuori, è anche automatico includersi. A volte fotografare è anche un gesto aggressivo. Spesso anche chi fa foto non vorrebbe essere fotografato. L’autoritratto ci mette allo stesso livello della persona a cui si chiede la generosità di essere fotografata, dandoci anche il suo tempo. Non è, per me, un discorso di egocentrismo, piuttosto di mettersi in relazione con le persone e le cose che si fotografano. Questa mostra potrebbe essere considerata un autoritratto, perché c’è mio padre, la figlia di Michael, il mio migliore amico, sua moglie e anche la mia, la figlia di mia moglie. Non c’è solo questo, ad esempio c’è anche un bambino che non so chi sia, ma è biondo e alla sua età ero biondo proprio come lui. Insieme c’è una donna che ha una lupa tatuata sulla spalla ed io sono venuto a vivere da Firenze a Roma quando avevo 8 anni.

Immagini che creano un dialogo particolarmente serrato…

MA: Volevo mostrare qualcosa di nuovo, inedito, ma nell’anno passato ho fotografato per la maggior parte la mia famiglia, così ho pensato che il tema potesse essere quello della famiglia e dei fantasmi.

Cosa sono, per voi, i fantasmi?

LC: L’altro lato di qualsiasi cosa.

MA: Anche l’aria, il vento, il respiro, l’acqua. Qualcosa che si vorrebbe toccare, ma che non è possibile afferrare. Forse, tornando al discorso dell’autoritratto, molte delle persone fotografate sono quelle che hanno la capacità di mettersi a nudo, esprimendo ciò che io non posso esprimere da me. Ci sono volte che fotografo ossessivamente la stessa persona, come quest’uomo nudo sdraiato sul letto (indica la fotografia) che viene spesso scambiato per me, perché ha il mio stesso taglio di capelli. Ma non sono io. E’ qualcuno che incarna il sentimento che vorrei esprimere, ma non posso.

LC: In generale penso che sia molto importante identificarsi con quello che si fa. E’ ciò che dà energia alle cose, perché molti soggetti fotografici possono essere anche banali o normali, ma se c’è un forte processo di empatia e identificazione è diverso.

Siete accomunati anche dall’uso della camera oscura, fase decisiva nel processo fotografico…

LC: Io lo faccio da sempre. Tutte le mie foto sono analogiche. Quando non stampo personalmente è Matteo Alessandri, qui a Roma, che lo fa per me. Lavoriamo insieme da undici anni, Matteo è uno dei miei amici più cari. In camera oscura trovo la giusta luce delle immagini, che è ciò che determina la fotografia. Anche Michael continua a fare un lavoro di camera oscura, ma ci sono delle volte, come in questo caso, in cui fa anche ink-jet. Abbiamo stampato più volte a quattro mani in camera oscura. Ci siamo divertiti molto. Intanto bisogna avere un grandissima vicinanza, non solo fisica, che è inevitabile visto che si sta appiccicati, anche intellettuale. Non si può fare con tutti, ma a volte quattro mani sono meglio di due.

MA: Anche per me è veramente importante lavorare in camera oscura. Se una mia foto è stampata da qualcun altro non è più mia. Devo decidere io la luce e la tensione con la luce. Sì, la camera oscura rappresenta gran parte del lavoro. E’ qualcosa che mi piace e di cui ho assoluto bisogno, perché, maneggiando la luce e i prodotti chimici, imparo sempre qualcosa a proposito della possibilità stessa della foto.

Come viene gestita la stampa in rapporto al digitale?

MA: Non fotografo molto in digitale, ma qualche volta uso Photoshop come se fosse la camera oscura. Provo a fare la stessa cosa, è solo molto più semplice con il computer.

LC: Penso che la camera oscura abbia dei limiti e una volta arrivati ad un certo punto non ci si può spingere oltre, come con Photoshop. Avendo meno limiti si è un po’ più viziati.

Quanto entra l’imprevisto nella vostra fotografia?

MA: Il mille per cento. Ci deve essere sempre qualcosa fuori controllo.

LC: E’ una delle cose più belle della fotografia, perché si è costretti a pensare che non si fa tutto da sé. Soprattutto quando si fotografa in pellicola e, magari, ci si perde in una situazione, lasciandosi coinvolgere totalmente, quindi dimenticandosi di se stessi. Poi si va a rivedere sul provino o sul negativo e ci si riesce a sorprendere nel vedere quelle cose che non ci si sarebbe esattamente aspettati di vedere. E’ l’imprevisto a creare quel “friccichio”. Vedere esattamente fotografie che si sa come saranno è noioso.

Le fotografie di entrambi, pur essendo descrittive, non seguono una linearità nella narrazione. La storia è un po’ come la memoria, affidata a frammenti. E’ così?

LC: La cosa più importante è riuscire a mostrare qualcosa che non dia tutte le risposte chiare e che non sia da A a B, da B a C, da C a D… Ci può anche essere un’immagine descrittiva, ma bisogna sempre essere pronti a contemplare altre accezioni. Boris Mikhailov dice una cosa molto interessante sul tramonto, l’immagine più didascalica al mondo. E’ normale che un fotografo professionista, che spende tutta la sua vita a fotografare, pensi che il tramonto sia un soggetto molto banale. Ma il vero fotografo deve mantenere sempre uno spazio dentro di sé per avere il sentimento per considerare bello un tramonto e fotografarlo, lasciandosi emozionare senza il preconcetto snob. La differenza è l’energia che si trasmettere in quello che si fa.

MA: E’ una fotografia per suggestioni, ritmo. Si può fotografare in tanti modi diversi, ma quello che si fa con la fotografia non può essere fatto con la scrittura o la pittura. Penso che la fotografia non debba essere legata soltanto all’immaginario, ma raccontare qualcosa.

C’è differenza nell’uso del colore, rispetto al bianco e nero?

MA: Il colore è qualcosa che ho evitato per tutta la mia vita di fotografo, fino ad un periodo molto recente. Ora sento di doverlo usare.

Perché?

MA: To sing another song… Per cantare un’altra canzone… (sorride). Penso che quando si trova qualcosa di cui si ha avuto paura a lungo, come me con il colore, poi lo si ama moltissimo. Ne avevo paura come per qualsiasi altra cosa sconosciuta. Ad esempio ancora non so guidare, ma sono sicuro che quando imparerò a farlo amerò guidare. Per dieci anni, poi, non ho saputo cucinare altro che riso e fagioli, finché non ho cominciato a sperimentare altro.

Ora cosa cucini?

LC: Fa un guacamole meraviglioso!

Ma torniamo al bianco e nero, solitamente usato per enfatizzare un linguaggio metaforico…

LC: Ho sempre pensato che mi piaceva di più fotografare in bianco e nero, anche se mi sembrava che fossi più bravo a scattare a colori. A Cuba ho scattato a colori, perché quei colori erano molto vicini a quello che cercavo. Colori che non fossero descrittivi e realistici, ma più legati all’essenza stessa del colore e potessero, quindi, trasmettere un certo tipo di sensazioni ed emozioni. Dopo il libro Paradiso, però ho smesso di usare il colore perché non volevo ripetermi. Da quel momento ho fotografato solo in bianco e nero, poi pochi anni fa ho ricominciato. Lo uso a seconda di quello che voglio dire. Il bianco e nero, comunque, tende all’essenziale, levando molte cose non necessarie. Per me, poi, il fatto di lavorare in camera oscura lo rende speciale. Quanto al colore, se si riesce a farlo diventare meno decorativo è meglio. Sono pochi, però, i fotografi che ci riescono, come Eggleston, ma più di tutti Lars Tunbjörk.

MA: La gente usa entrambi in una maniera che può essere molto banale o molto originale.

In particolare, per te Michael, il bianco e nero è associato alla memoria…

MA: Per me il colore della memoria è il grigio. Quando uso il linguaggio della fotografia cerco solo di dare voce al soggetto. Se il soggetto è la memoria, l’approccio è completamente istintivo. Ora, comunque, è diverso da un anno fa o da dieci anni, perché cambiamo con il tempo e cambia la nostra percezione, il modo di vedere oppure essere ciechi. Non credo di essere in grado di dare una definizione del mio lavoro. Penso, comunque, che diventando più vecchi il soggetto della memoria è sempre più presente nella nostra vita e nel nostro lavoro. Non possiamo scappare. Nell’invecchiare ci rendiamo conto di tutto quello che abbiamo perso, per cui la fotografia diventa memoria.

Anche l’amore per la musica, chiamando in causa il titolo della mostra, vi accomuna…

LC: Sono completamente stonato e non riesco a fare neanche un barrè con la chitarra, ma è sicuramente la mia arte preferita. La musica ha la capacità di toccare delle corde che vibrano molto in me.

MA: Per me è lo stesso. Tutti e due avremmo tanto voluto fare musica, ma siamo totalmente negati. La fotografia è la nostra musica.