Giovani da 150 anni e con una storia indissolubilmente legata alla musica. Un giorno di un secolo e mezzo fa a Reno, in Nevada, il sarto Jacob Davis, un immigrato ebreo lettone, ideò per la prima volta un pantalone in tessuto cotone denim in cui le cuciture erano rinforzate con dei rivetti in rame. Nasceva il moderno jeans. Gli abiti di quel tessuto erano già molto utilizzati come divise per i lavori manuali più impegnativi: la stoffa proveniva tradizionalmente da Nîmes e veniva spesso identificata come divisa dei portuali genovesi. Da qui ebbero origine i due termini «denim», dalla città francese, e «jeans», dal nome francese del capoluogo ligure. Seppur ispirata a capi già esistenti, l’invenzione di Davis era originale. I rivetti in rame furono il vero valore aggiunto: i lavoratori si lamentavano infatti di come gli altri pantaloni fossero troppo soggetti a strappi soprattutto sulle tasche e apprezzarono subito l’innovazione del sarto. Davis capì che potevano esser qualcosa di più di un prodotto artigianale ed entrò in contatto con un commerciante di tessuti anch’egli di origine europea, l’ebreo bavarese Löb Strauß che aveva aperto a San Francisco una compagnia con il suo nome americanizzato, la Levi Strauss & Co. Nel maggio del 1873 i pantaloni divennero un brevetto. Ai tempi si chiamavano «waist overall» o «waist-high overall» (traducibile in «tute da lavoro alla cintola») e vennero pubblicizzati come «patent riveted clothing» («abiti rivettati brevettati»). Il modello che si impose maggiormente fu quello in denim di colore blue indaco e divenne il capo d’abbigliamento preferito dei lavoratori, fossero essi minatori, contadini, operai, cowboy o cercatori d’oro. Uno di questi modelli diventerà poi noto con il numero di lotto con cui veniva catalogato nel magazzino della Levi Strauss: 501. Un mito americano come lo ha celebrato lo stesso brand californiano in un recente documentario in tre parti intitolato Stories of an Original narrato dal musicista folk Ramblin’ Jack Elliott e con ospiti come Henry Rollins e Lee Ranaldo. In effetti la storia di un paio di pantaloni da lavoro non sarebbe oggi particolarmente interessante se quello che era nato come un accessorio non si fosse trasformato nel corso degli anni in uno dei più duraturi simboli generazionali che conosciamo.

LA SVOLTA
La svolta arrivò negli anni Cinquanta. I giovani americani erano alla ricerca di nuovi idoli, nuovi modelli ed erano animati da voglia di trasgredire. Gli «overalls» erano sbarcati a Hollywood grazie ai film western, erano indossati da Gary Cooper e da John Wayne, ma erano ancora ritenuti pantaloni da mandriani o simbolo della working class più umile. Erano esattamente il capo d’abbigliamento che una famiglia borghese bianca statunitense non avrebbe mai voluto vedere addosso a un proprio rampollo. Ma si era sull’orlo di una rivoluzione culturale. Nel 1953 Marlon Brando, coperto di cuoio e denim, divenne una star grazie al film Il selvaggio. Nel 1955 James Dean interpretò Gioventù bruciata, il film che meglio rappresentava il divario che si stava creando tra vecchie e nuove generazioni. Dean, nel ruolo del diciassettenne ribelle senza una causa Jim Stark, indossava un paio di jeans della marca concorrente della Levi Strauss, la Lee, nata nel 1911. Pochi mesi dopo sarà un altro idolo generazionale a consacrare definitivamente questo look. Elvis Presley nel 1957 interpretò uno dei suoi film più famosi, Jailhouse Rock diventato in Italia Il delinquente del rock ’n roll. La scena più nota della pellicola è quella in cui Elvis canta la canzone che dà il titolo al film. Indossa quella che dovrebbe essere una divisa da carcerato, ma è una straordinaria operazione di marketing: un completo in denim nero. Quella sequenza, oltre ad essere uno dei momenti più importanti nella storia della musica popolare, di fatto sancirà per la prima volta l’alleanza tra musica rock e jeans. I pantaloni neri utilizzati da Presley erano della Levi Strauss (ormai nota come Levi’s) ed erano stati studiati apposta per diventare un prodotto di moda giovanile e vennero commercializzati come i «Levi’s Elvis Presley jeans». Fino ad allora il marchio aveva promosso i suoi capi a un pubblico di lavoratori, utilizzando quasi sempre per farsi riconoscere il mito dei pionieri, dei cowboy e della corsa all’oro. Con l’avvento dell’era del rock’n’roll si capì che la strategia andava cambiata e che i jeans potevano essere non solo un indumento utile, ma soprattutto un modo di identificare l’attitudine di una generazione. Ironicamente, quello che meno era convinto dell’idea era lo stesso Elvis. Agli albori del rock i musicisti erano soliti indossare completi eleganti, spesso un po’ affettati, il giovane Presley vedeva i jeans come simbolo di quella working class e di quella società da cui cercava disperatamente di emanciparsi. Ebbe la meglio il marketing e una generazione capì che il gap tra tradizione e nuova era andava sancito anche da un nuovo modo di vivere l’abbigliamento. Alcune scuole cercarono di proibirli agli studenti, ma questo non fece che suggerire fortunate campagne pubblicitarie con lo slogan «adatti per la scuola» e contribuire così al loro successo.
La trasgressione era anche più marcata se si pensa che proprio negli anni Cinquanta la Lee lanciò i primi jeans da donna con apertura frontale, una soluzione ritenuta ai tempi estremamente volgare per i capi femminili. Commentava preoccupato un giornale dell’epoca: «Il 90% della gioventù americana indossa i jeans ovunque tranne che a letto o in chiesa».

UNA NUOVA ERA
Gli anni Sessanta furono l’inizio di una nuova era nella musica e nella moda. I musicisti folk americani vedevano il jeans come segno di appartenenza a un popolo lavoratore di cui cantavano le sfide. Nel 1963 un giovane Bob Dylan comparve sulla copertina del suo album Freewheelin’ con una giacca di pelle scamosciata e dei semplici jeans. Lo vediamo infreddolito camminare per una strada del Greenwich Village di New York a braccetto con la compagna dell’epoca Suze Rotolo. Ha indosso un paio di 501. Lo stesso modello di pantaloni comparve l’anno dopo sulla copertina di Another Side of Bob Dylan. Ma qui si nota un particolare curioso: all’altezza della caviglia si vede un’appariscente toppa a U rovesciata, fatta per allargare i pantaloni in modo da poterli indossare con gli stivali. Non era nulla di studiato, bensì una soluzione improvvisata che venne cucita dalla stessa Suze Rotolo, che non solo era la musa del cantautore, ma anche la sua assistente personale. I bohémien beat degli anni Sessanta avevano trovato in Dylan un nuovo vate e il jeans conquistava così anche una classe di giovani intellettuali impegnati e amanti di letteratura e di canzoni folk.
Nel mondo della musica intanto la British Invasion stava spostando l’asse geografico del rock. Le band inglesi comparvero sulle scene agghindati come i cantanti di alcuni anni prima, con completi uniformi spesso imposti dalle case discografiche. Ma il loro stile e quello del loro pubblico era molto diverso. I Beatles nella prima session fotografica della loro storia si presentarono completamente vestiti di cuoio, quasi degli acerbi epigoni di Marlon Brando ne Il selvaggio. Furono poi per qualche tempo costretti a indossare completi giacca e cravatta, ma già nel maggio 1963 erano diventati i modelli per una ditta di Liverpool, la Lybro Limited, che produceva jeans di diversi tagli e fogge e che voleva venderli ai giovani del luogo. I Fab Four che all’epoca avevano appena pubblicato Please Please Me posarono per un volantino pubblicitario indossando i pantaloni del marchio locale.

BRITISH INVASION
Nella seconda metà degli anni Sessanta le rock band britanniche avevano quasi tutte riposto i completi in naftalina e sperimentavano nuovi look senza mai abbandonare i jeans. I Beatles cambiarono brand e nel 1965 si videro, nuovamente ricoperti di denim per una pubblicità della Lee. Nel 1969 nella copertina di Abbey Road i quattro di Liverpool attraversano le strisce pedonali davanti al loro studio di registrazione. In quello scatto passato alla storia il più a suo agio è George Harrison, quello che chiude la fila, completamente vestito in denim blue.
Era arrivata l’epoca della contestazione, i delinquenti del rock’n’roll di dieci anni prima erano ora gli hippie, tutto cambiava, ma i jeans riuscirono ad adattarsi, diventando anche simbolo della protesta studentesca e del movimento pacifista. Rappresentavano, come ha scritto il giornalista inglese esperto di moda Robert Elms, «l’accessorio cardine di ogni vita ben vissuta». Ma in un altro ambito il denim segnava un importante momento di svolta. Esattamente cinquant’anni fa Marvin Gaye pubblicava il suo capolavoro What’s Going on. Era un album della Motown, l’etichetta di Detroit che aveva segnato un’epoca della black music, ma che fino ad allora era stata ben lontana da ogni possibile polemica politica e sociale. Il capo dell’etichetta Barry Gordy imponeva ai suoi artisti look molto eleganti. La sua non era una scelta estetica, sapeva che il successo dei suoi dischi dipendeva in gran parte da circuiti radio dominati da imprenditori e da un pubblico di americani bianchi. Gli artisti neri dovevano quindi apparire più innocui possibile, per non rischiare discriminazioni o boicottaggi. Gaye, entrando in contrasto con Gordy, dopo aver raggiunto il successo seguendo le regole di scuderia decise di cambiare registro. E nel 1971 per What’s Going on non solo produsse uno dei più straordinari album di musica pop di protesta, ma cambiò radicalmente il suo aspetto passando dai completi grigi a look fatti di camicie e pantaloni in jeans e cappelli di lana. Lo stile Motown non era più in sintonia con la comunità nera che aveva combattuto e stava combattendo per i propri diritti. Ancora una volta il denim incarnava una ribellione sociale. Ma non aveva perso neppure un’anima di goliardica trasgressione. Sempre cinquant’anni fa infatti, nel maggio del 1971, i Rolling Stones pubblicarono Sticky Fingers. L’album che conteneva classici come Brown Sugar e Wild Horses sarebbe passato alla storia anche avvolto in una carta da pacchi, ma l’artwork del 33 giri fu l’ideale coronamento grafico per un classico del rock. Da un’idea di Andy Warhol il disco metteva in primo piano la fotografia della zip di un paio di jeans attillatissimi, in cui era in bella evidenza la virilità di colui che li indossava. Nelle prime edizioni dell’album la cerniera era incollata sopra la copertina e si poteva effettivamente abbassare. Questo ovviamente creò un enorme problema per il confezionamento e la distribuzione del vinile, poiché i denti della zip rovinavano i solchi del disco rendendo inascoltabile la canzone Sister Morphine. Il problema portò anche a una causa tra l’etichetta discografica Atlantic e il responsabile del packaging Craig Braun. Il disco venne poi ristampato con la sola fotografia, ma molte catene di negozi si rifiutarono di distribuirlo per via dell’immagine troppo provocante. A tutt’oggi non sappiamo però ancora quale sia il modello di jeans nella foto e neppure chi sia la persona ritratta nello scatto. Molti ai tempi pensarono che il primo piano inguinale appartenesse a Mick Jagger, ma in realtà fu prodotto in totale autonomia da Warhol nel suo studio utilizzando uno dei suoi fotomodelli: per anni si è creduto che fosse l’attore Joe Dallesandro, ma di recente Glenn O’Brien, che ai tempi dirigeva la rivista Interview e che fu coinvolto nel lavoro per la copertina, ha assicurato di essere il protagonista del malizioso scatto. Poco importa, Sticky Fingers era il primo album degli Stones dopo la tragedia di Altamont e la band aveva bisogno di tornare sulle scene facendo dimenticare la violenza. Con quella copertina riportarono le loro provocazioni in un più pacifico ambito sessuale.

ALTRE TENDENZE
Gli anni Settanta erano iniziati e nuove tendenze e nuove mode si stavano affacciando. Per il jeans sembrava giunta l’ora di un meritato pensionamento. Nel rock la moda glam proponeva abiti coloratissimi, tessuti sintetici, lustrini e piume. L’imporsi della disco music e delle discoteche era un invito a scoprire un’eleganza originale e a mettere in cantina i vecchi Levi’s. Per la prima volta i jeans rischiarono di essere demodé e fuori luogo. Ma due fenomeni opposti salvarono ancora la reputazione del denim. Il primo fu il revival degli anni Cinquanta nella cultura di massa, innescato dall’incredibile successo di fenomeni pop come il film musicale Grease e la serie televisiva Happy Days. Improvvisamente tornò di moda il look con cui Brando, Dean e Presley avevano sconvolto le regole vent’anni prima: maglietta, jeans e giubbotto di pelle. John Travolta era un sosia di Elvis, Henry Winkler o meglio Fonzie era un James Dean nazional-popolare. Contemporaneamente anche l’underground salvava il jeans. Bastò anche qui un semplice scatto fotografico. Lo realizzò Roberta Bayley per la copertina di un album che compie 45 anni. Si tratta del primo omonimo disco dei Ramones, pubblicato nell’aprile 1976, che sulla cover mostrava la band ritratta in una semplice ma iconica foto in bianco e nero di gruppo scattata a New York sul retro del locale CBGB. Un’immagine tanto naturale da essere incredibilmente espressiva: il quartetto punk è allineato a ridosso di un muro in mattoni, tutti vestono jeans strappati attillati (sono Levi’s modello 505), giubbotti di pelle e scarpe da ginnastica. Il punk americano si presentava così, sdrucito, aggressivo, con quegli strappi – tendenza formalizzata dalla band – che risultavano eversivi portandosi dietro tutto quello che metaforicamente uno strappo può evocare.
I colori e gli eccessi del glam e della disco venivano azzerati. Tutto tornava all’essenzialità. Il denim era ancora il simbolo della working class e dei ribelli. A confermare questo connubio ci sarà anche Bruce Springsteen che nel 1984 con Born in the U.S.A. portò il blue-collar rock, che raccontava la classe lavoratrice, ai vertici dell’universo pop. La copertina, quasi una citazione al contrario di Sticky Fingers, è uno scatto di Annie Leibovitz di Springsteen di spalle: una maglietta bianca e un cappellino rosso ficcato nella tasca posteriore un paio di consunti jeans Levi’s 501. Sul fondo le strisce della bandiera Usa: immediato e indimenticabile. Pochi anni dopo anche Madonna pagava tributo a Sticky Fingers con la copertina di Like a Prayer del 1989.

HAUTE COUTURE
Negli anni ’90 il denim diventa tradizione e anche alta moda con la campagna pubblicitaria di Gianni Versace «jeans couture». Arrivano altri marchi italiani come Moschino e Diesel. Ma il re del mercato è Calvin Klein che, impostosi negli anni ’80, negli anni ’90 sposa la musica hip hop. Testimonial del brand Usa è il mediocre rapper Marky Mark la cui carriera musicale finirà in nulla, ma destinato diventare una star di Hollywood con il suo vero nome Mark Wahlberg. I rapper ragazzini Kris Kross di Atlanta nel 1992, vanno al vertice delle classifiche e lanciano una nuova moda: i jeans oversize indossati al contrario. Il denim sopravvive anche alle ultime rivoluzioni musicali. Vestono in jeans sia Kurt Cobain che Tupac Shakur che rilancia anche la salopette in denim. A 150 anni dalla nascita, il jeans unisce ancora culture, musiche e generazioni. E per dirla con Giorgio Armani «la rappresentazione della democrazia della moda».