La decisione della Spd di favorire in Germania la nascita di una grande coalizione, visti i rapporti di forza tra i partiti e la crisi ideale e sociale della socialdemocrazia, ha molti aspetti di resa incondizionata. Per quanto nella scelta operata dalla Spd via sia molto di tedesco, di inerente cioè tanto alla storia quanto all’attualità politico-sociale del paese, essa getta ulteriore luce sul precario stato di salute del socialismo europeo. Che si traduce in una sempre più marcata mancanza di autonomia ideale e di “ragione sociale” rispetto ai gruppi dirigenti del capitalismo, oltre che in percentuali elettorali in netto calo o addirittura risibili, come nel caso della Grecia e di alcune regioni spagnole.

Si tratta di una crisi generalizzata, con radici anche di lunghissimo periodo (si può ad esempio sostenere che, per ciò che riguarda il decisivo campo delle scelte internazionali, l’utopia di una autonoma politica estera socialista giaccia sepolta fin dal 1914), ma che è deflagrata di fronte all’impotenza del socialismo continentale di scendere in campo con un progetto proprio quando più ce ne era bisogno: ovvero al momento di costruire l’unità europea, o per lo meno di presentare un disegno autonomo dalla destra, magari perdente nell’immediato, ma suscettibile di essere riproposto adesso, nel fallimento eclatante dell’”europeismo reale” e delle politiche economico-sociali ad esso sottese.

Sul caso inglese, da questo punto di vista, poco c’è da aggiungere alla fulminante riflessione di Margareth Tatcher, secondo la quale il New Labour avrebbe costituito il suo maggior successo politico. In Germania, nel corso degli anni Ottanta, la Spd seppe, è vero, elaborare un programma innovativo, eppur fortemente ancorato alla storia e alla pratica del movimento operaio: ma il partito rimase all’opposizione finché, con Schroeder, sposò le ricette neoliberali e si fece dettare il proprio programma (a proposito di mancanza di autonomia) da un grande manager dell’apparato industriale-finanziario.

In Francia, nel corso degli anni Ottanta, il Ps instaurò una sorta di monarchia democratica: ma Mitterrand (di formazione comunque non socialista) dovette rinunziare a buona parte del proprio ambizioso programma economico; nel decennio successivo, poi, la coabitazione tra Jospin e Chirac ha lasciato una eredità ben scarsa alla storia del socialismo continentale. In Austria una grande coalizione è, nella sostanza, al governo dalla fine della seconda guerra mondiale, ed è arduo individuare un’impronta socialista autonoma nel consenso diffuso creatosi attorno a quel modello di governo. Nei Paesi dell’Est europeo i socialisti, spesso espressione della vecchia nomenklatura comunista, furono precipitosamente richiamati pressoché ovunque al governo nella seconda metà degli anni Novanta, dopo che i partiti direttamente espressione dell’opposizione ai regimi avevano data scarsa prova di sé: tuttavia essi poco o nulla fecero per caratterizzare in senso autonomo la propria azione, continuando nella pervicace politica dei loro predecessori di distruzione del welfare, di svendita degli asset di proprietà dello Stato e di benvenuto alle basi Nato. Nei paesi mediterranei, Spagna, Portogallo e Grecia, che a partire dalla fine degli anni Settanta si liberarono da sanguinose dittature di matrice fascista, i socialisti goderono di un ampio e diffuso consenso popolare, e furono in grado di varare alcune riforme di segno progressista, anche grazie al livello minimo di partenza dei rispettivi sistemi di welfare. Ma i gruppi dirigenti della sinistra non comunista, formatisi non tanto nell’opposizione interna al regime quanto nelle università e nei centri studi occidentali – in Spagna fu preponderante il ruolo giocato dalla Germania federale, in Grecia quello degli Stati Uniti – si dettero soprattutto a rafforzare il vincolo esterno, dal duplice punto di vista militare ed economico. Vasti processi di deregulation finanziaria presero allora il via (Manuel Vázquez Montalbán ci ha lasciato, nei suoi romanzi gialli, impietosi ritratti della nuova mappa del potere spagnolo), continuati poi dai loro eredi negli anni Duemila: la crisi finanziaria, la disoccupazione e la precarizzazione straordinarie poco hanno lasciato intatto del caduco mito di Zapatero.

In questo panorama, l’Italia rappresenta forse il paese in cui meno breccia ha fatto, nell’immaginario collettivo e nella pratica politica, il modello e l’organizzazione dei socialisti europei. In due epoche diverse, Saragat e Craxi (più il primo che il secondo, per la verità), ne furono l’espressione italiana più autorevole, e questo di per sé valse a limitarne l’influsso sul movimento operaio. La sinistra maggioritaria fu prima espressione del Pci, e quindi poco contribuì a far crescere nel paese il lievito della socialdemocrazia, poi preda di un “oltrismo” che ha variamente condizionato Occhetto (pur fondatore del Pse col suo Pds), D’Alema (col suo vagheggiamento di un “Ulivo mondiale” assieme a quel Cardoso, leader della destra brasiliana poi travolto da Lula) e i fondatori del Partito democratico. Tuttavia, nel corso degli anni Novanta, una qualche sintonia tra sinistra italiana ed europea ha preso ad affermarsi: come si è tentato di illustrare, questo è successo nel momento di maggior crisi dell’una e dell’altra – cioè, verrebbe da dire, nel momento sbagliato. Di questa duplice crisi ora ci troviamo a pagare le conseguenze, ed urge in Italia ed in Europa la messa in campo di un modello nuovo e autonomo che riproponga la valenza della battaglia socialista. Se molto in avanti (troppo in avanti) si è spinta la sinistra italiana nell’introiezione del fallimento dei propri orizzonti politico-culturali, anche quella europea dovrebbe finalmente cominciare a ripensare criticamente il proprio passato, pena lo scadimento nell’irrilevanza.