Quando l’Organizzazione mondiale della sanità, l’11 marzo del 2020, definiva «pandemia» l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus, era difficile immaginare gli scenari futuri. Il milione e mezzo di morti finora registrati, e i molteplici fattori che hanno contribuito a determinarli, ci fanno dire che quel termine è inadeguato a definire il quadro sanitario, ambientale e sociale che si è determinato.

A FINE SETTEMBRE E’ STATA la rivista scientifica inglese The Lancet attraverso il suo direttore Richard Horton, medico e docente onorario in diverse istituzioni formative, a sostenere la necessità di usare il termine «sindemia» per rappresentare l’insieme delle cause e degli effetti di questa catastrofe sanitaria, sociale ed economica. Perché, se in una pandemia il contagio colpisce in modo indistinto tutte le persone e si manifesta con uguale pericolosità, in una «sindemia» il contagio colpisce in modo grave soprattutto le persone che presentano certe patologie e versano in precarie condizioni socioeconomiche.

LA COMPRENSIONE DELLE INTERAZIONI che si sono stabilite tra coronavirus, situazione ambientale, condizione socioeconomica, patologie pregresse, ha consentito un approccio nuovo e più ampio per definire la «crisi di salute» che stiamo vivendo. E’ stato il medico e antropologo americano Merrill Singer a introdurre negli anni ’90 il termine «sindemia» durante le ricerche da lui effettuate sulle disparità sanitarie, l’abuso di sostanze, l’Aids. In queste ricerche veniva preso in esame non solo il fatto infettivo, ma il contesto in cui esso si manifestava. Afferma Singer: «In certe situazioni due o più malattie interagiscono in forma tale da causare danni maggiori della somma delle singole malattie e l’interazione con gli aspetti sociali ci fanno dire che non si tratta di semplice comorbilità».

L’OBIETTIVO DI SINGER E’ QUELLO di definire «un modello di salute che si concentra sul complesso biosociale», allo scopo di individuare i fattori che promuovono e potenziano in modo sinergico gli effetti negativi di una determinata malattia. E’ questa sinergia, questa cooperazione tra fattori a caratterizzare la sindemia. Ed è quello che sta avvenendo con covid-19. I dati disponibili dimostrano che le persone che hanno più probabilità di rimanere gravemente malate o morire sono quelle che già soffrono di altre malattie come obesità, diabete, problemi cardiocircolatori e respiratori, cancro. Si è, inoltre, osservato che la malattia si manifesta in misura maggiore nelle comunità più svantaggiate da un punto di vista sociale ed economico, nelle minoranze etniche. «La conseguenza più importante del vedere il Covid-19 come una sindemia è sottolineare le sue origini sociali», afferma Horton.

ORAMAI APPARE SEMPRE PIU’ CHIARO che siamo di fronte a un aggravamento della salute della popolazione non solo per la causa dominante (coronavirus), ma anche per il suo intreccio con fattori biologici e sociali sfavorevoli. Le popolazioni più colpite sono quelle che presentano una maggiore vulnerabilità e che vivono nelle aree dove le disuguaglianze sono più acute. Da solo questo virus non sarebbe in grado di produrre tanti danni alla salute umana se non trovasse popolazioni alle prese con un ambiente deteriorato, cattiva alimentazione, elevata incidenza di malattie croniche.

SCRIVE HORTON SU THE LANCET: «Due categorie di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche, l’infezione causata dal coronavirus Sars-Cov-2 e una serie di malattie non trasmissibili (MNT). Queste condizioni si raggruppano in categorie sociali rispetto a strutture di disuguaglianza profondamente radicate nella nostra società. L’aggregazione di queste malattie su uno sfondo di disparità economica e sociale inasprisce gli effetti avversi delle singole malattie». Il dibattito si sta arricchendo di contributi che provengono dai ricercatori di vari paesi.

GLI STUDI SI STANNO CONCENTRANDO non solo sulle modalità con cui avviene il contagio e su come interrompere la catena di trasmissione, ma anche sulle cause che determinano una maggiore letalità. Si indaga sui «fattori aggravanti» e i contesti socio-ambientali che li hanno favoriti. Perché il virus non agisce isolatamente sull’organismo, ma ha come complici tutte quelle malattie non trasmissibili che le condizioni sociali e ambientali hanno favorito. La povertà è il primo dei fattori a determinare un aumento di letalità. Un virus che si diffonde in una baraccopoli ha conseguenze diverse in una città del nord Europa.

COSI’ COME IN UNA POPOLAZIONE piegata dall’inquinamento di aria, acqua e suolo, trova condizioni favorevoli a produrre effetti letali rispetto a una popolazione che vive in aree in cui sono state sviluppate politiche di tutela ambientale. E poi c’è il cibo malsano che si è impadronito delle nostre tavole a fare da detonatore nella comparsa delle malattie non trasmissibili (diabete, obesità, malattie cardiorespiratorie, cancro). Nel 2019 la Fao aveva lanciato l’allarme sull’impatto sanitario del cibo malato come filo nero che collega la distruzione degli ecosistemi e l’insorgenza di gravi malattie. Scrive Horton, riferendosi a uno studio recente: «Il numero di persone che vivono con disturbi cronici sta aumentando. Affrontare il Covid-19 significa affrontare le MNT che sono una causa di cattiva salute, nei paesi ricchi e in quelli poveri».

LE MALATTIE NON TRASMISSIBILI STANNO facendo da amplificatore del virus e continueranno a influenzare la salute della popolazione, rappresentando un terreno fertile per le future pandemie. «Le malattie e lesioni non trasmissibili costituiscono oltre un terzo del bagaglio di malattie per il miliardo di persone più povere del mondo. La disponibilità di interventi accessibili ed economicamente vantaggiosi nel corso del prossimo decennio può prevenire più di 5 milioni di morti nelle aree di estrema povertà», si legge ancora su The Lancet. «Non possiamo pretendere di restare sani in un mondo malato», ha affermato Papa Bergoglio, mettendo in discussione il modello di produzione e consumo.

LA SOCIETA’ AMERICANA DI MEDICINA delle catastrofi e salute pubblica, in riferimento all’articolo di Horton, scrive: «La risposta istituzionale all’attuale crisi deve essere basata su una visione sindemica e non pandemica». Perché, come aveva scritto Singer nel 2017, «un approccio sindemico fornisce un orientamento molto diverso alla medicina clinica e alla salute pubblica, mostrando come un approccio integrato alla comprensione e al trattamento delle malattie possa avere più successo rispetto al semplice controllo dell’epidemia o al trattamento individuale dei pazienti». Non si tratta di una semplice questione di termini. Le conclusioni di Horton definiscono nuovi approcci: «Trattare il Covid-19 come una sindemia incoraggerà una visione più ampia, che comprenda istruzione, impiego, casa, cibo e ambiente».